Da-sin.-Angela-Alessandra-Notarnicola-Suzuki-Donato-Di-Gioia-Sharpless-Maria-Luisa-Lattante-Cho-Cho-San-e-il-piccolo-Diego-Malena-Dolore-Foto-di-Giuseppe-Grieco-Radio-Incontro

Redavid e Notarnicola, artisti turesi da esportazione. In scena a Polignano la ‘Madama Butterfly’ di Puccini

Esiste una Turi di cui andare orgogliosi, una Turi dal conclamato successo artistico che ci lusinga, e deve essere da sprono nell’approntare nuove idee progettuali che puntino maggiormente su un offerta culturale di qualità sia per le nuove generazioni, sia per un rilancio culturale dell’intera comunità cittadina anche in prospettiva di una promozione culturale e turistica. Succede così, che Turi esporti, ed è un bene, la riconosciuta professionalità di due noti artisti, nella vicina e suggestiva meta turistica di Polignano a Mare, in occasione dell’importante rassegna musicale “FramMentiD’ARTE”. Partecipazione fortemente voluta dall’Associazione “Musicad’InCanto Davide Gaetano D’Accolti APS”, promotrice ed organizzatrice nel ricordo del ventitreenne barese Davide Gaetano D’Accolti, studente di ingegneria elettronica e del Conservatorio di Bari, rimasto vittima di un terribile incidente sulla S.S.16 presso Bari. Così per la seconda serata della rassegna, prevista per sabato 13 Agosto, presso la suggestiva cornice di piazza Suor Maria La Selva, affacciata sul mare, poi spostata per maltempo presso la tensostruttura del Polivalente Gino D’Aprile, è andata in scena “Un sogno in musica: il racconto di Madame Butterfly” ispirata all’opera in tre atti, “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini, inscenata per la prima volta il 17 febbraio 1904 al “Teatro alla Scala” di Milano, e tratta dalla tragedia giapponese “Madame Butterfly” di John Luther Long.

La versione dell’opera proposta per la serata, ha sapientemente utilizzato una voce narrante per spiegare al pubblico alcuni complessi passaggi della trama, senza comprometterne l’equilibrata resa compositiva “pucciniana”. La rappresentazione ha visto l’arrangiamento musicale del M° Gianfranco Iuzzolino, e la regia internazionale di Vincenzo Grisostomi Travaglini coadiuvato dal consulente alla drammaturgia, Ravivaddhana Monipong Sisowathche che ha portato a Polignano a Mare anche i costumi originali realizzati appositamente per la rappresentazione al “Teatro del Giglio” di Lucca nel 1982, ai quali si devono aggiungere le realizzazioni dei costumisti Fabrizio Onali e Otello Camponeschi, esposte sotto il porticato di palazzo San Giuseppe a Polignano. Splendide le scenografie realizzate da Damiano Pastoressa, interessante scenografo pugliese che già lo scorso aveva deliziato i turesi, con il sontuoso allestimento della “Cavalleria Rusticana”, scenografia che quest’anno ha visto luci e disegni, curati da Giovanni Pirandello, pronipote del drammaturgo Luigi, Premio Nobel per la letteratura. Gli attori e le comparse Maria L’Abbate, Miriam Galiano, Porziana Lentini, Francesco Colucci, Nico Rotondi e Piero Greco sono state preparate alla scena dalla truccatrice Tiziana Passero.

Le note della “tragedia pucciniana” sono state tradotte in musica dalla sempre più rinomata e ricercata “Orchestra Filarmonica Pugliese”, stupendamente diretta dal Direttore e M° Concertatore Ferdinando Redavid nostro concittadino coadiuvato dal M° Collaboratore Andrea Barbato. Ferdinando Redavid,  “Direttore artistico” che da anni ha intrapreso una battaglia per far della nostra comunità turese un centro della lirica conosciuto a livello internazionale, con la rassegna del “Festival del Belcanto” portando sul palcoscenico turese, affermati interpreti e giovani promesse poi affermatesi della lirica. Si pensi ad esempio al tenore Enrico Terrone Guerra, lo scorso anno protagonista col personaggio di “Turiddu” nella suggestiva “Cavalleria Rusticana” andata in scena nella nostra cittadina, quest’anno invece, qui con la sua potente voce, interprete superbo del “Ten. Pinkerton”, insieme alla protagonista “Cio Cio-san” interpretata dal soprano Maria Luisa Lattante, al baritono Donato Di Gioia nel ruolo del console “Sharpless”, ed alla giornalista e attrice Michela Italia, collaboratrice del tenore Marcello Giordani, nel ruolo di “Kate Pinkerton”, oltre che autrice dei splendidi e coinvolgenti testi, narrati al pubblico. Per ultimo, la partecipazione dell’affermato mezzosoprano turese Angela Alessandra Notarnicola, già lo scorso anno a Turi nel ruolo di “Mamma Lucia” nella “Cavalleria Rusticana”, e quest’anno impegnata nell’importantissima parte di “Suzuki”, eroina positiva della tragedia, che con abnegazione cercherà di difendere la sua padrona non riuscendovi. Difatti nella tragedia ambientata a fine ‘800 nella città portuale giapponese di Nagasaki, Suzuki è l’inserviente disillusa della quindicenne geisha Cio Cio-san innamoratasi perdutamente del Ten. Pinkerton, il quale a sua volta la seduce e sposa per puro spirito d’avventura, divertito dal contesto e dagli usi del paese nipponico.

Partito alla volta degli USA, l’ufficiale abbandona la sposa, promettendole il suo ritorno a primavera. Ma dopo tre anni dalla sua partenza, l’inserviente Suzuki stanca dello struggersi in lacrime della propria padrona, prega Buddha che Cio-cio-san divenuta col matrimonio Madama Butterfly “non pianga più, mai più, mai più”. Volendo destare la sua padrona dall’ormai effimero sogno, le ricorda il pragmatico e conosciutissimo comportamento marinaro: “Mai non s’è udito | di straniero marito | che sia tornato al suo nido”. La padrona invece, forte di un amore ardente e tenace, pur affliggendosi nella lunga attesa, dalla bella casa sulla collina affacciata sul porto, continua a professar la sua incrollabile fiducia nel ritorno dell’amato nella straziante aria “Un bel dì, vedremo”, la più celebre dell’opera, vero e proprio atto di fede in cui la Madama proietta il suo smanioso desiderio di riabbracciare il suo sposo, magnificamente reso in lirica dal soprano Maria Luisa Lattante.

Quando un dì, Madama Butterfly avvista da lontano la nave “Abramo Lincoln” su cui è imbarcato il suo amato, si vede ormai già vittoriosamente a lui ricongiunta e lo attende insonne in una lunghissima veglia d’attesa. Mentre ella stanca si addormenta, Suzuki apprende che Pinkerton si è risposato con un americana e dell’intenzione che “del bimbo conviene | assicurar le sorti!”, apprestandosi a stare il più possibile vicino alla propria padrona. Qui il mezzosoprano Angela Alessandra Notarnicola riesce a connotare perfettamente la “pietas” con cui Puccini connota l’animo dell’inserviente posta in una condizione d’indigenza, sul gradino più basso della società nipponica, con “Ma bisogna ch’io le sia sola accanto | Nella grande ora, sola! Piangerà tanto tanto!”. Ma la sposa, una volta venuta a sapere delle intenzioni dell’ufficiale, decide di scomparire, in silenzio, dalla scena del mondo, senza clamore e dopo aver affidato il figlio alle cure di Pinkerton e Kate. Suzuki accortasi delle sue tragiche intenzioni cerca in ogni modo di evitarle. Così nell’ultima scena mentre Madama Butterfly ha già portato alla gola il “coltello tantō” ricordando le parole del padre suicida “Con onor muore chi non può serbar vita con onore”, Suzuki in un ultimo disperato tentativo di far rinsavire la sua padrona, col braccio invita il bambino “Dolore” portato in scena dal piccolo Diego Malena, ad andare verso la madre affinché alla sua vista fermi la propria mano. Tentativo che ha breve durata, fin quando la madre, bendato e riposto il bambino in una stuoia dietro un paravento, esegue su di sé l’antico rito suicida del “jigai”.

Lo spettacolo di livello internazionale, andato in scena presso la tensostruttura, è qualcosa che difficilmente sarebbe possibile vedere ovunque, viste le maestranze operanti, ma che è stato possibile seguire gratuitamente per i circa 800 fruitori che hanno accolto l’invito dei genitori Davide Gaetano D’Accolti, riusciti con l’aiuto degli amici, del Comune di Polignano a Mare e di Pugliapromozione – Agenzia Regionale del Turismo, ad esaudire il sogno solidale del figlio verso coloro che non solamente per ragioni economiche non possono cercare una simile esperienza in un teatro, dando ad essi la possibilità in determinate giornate clou dell’anno, quali ad esempio Ferragosto, di poter godere per qualche ora della intensa sensazione di bellezza che promana dal mondo della musica e della lirica, patrimonio inestimabile a beneficio di tutti.

Pietro Pasciolla

Didascalie foto, dall’alto: 1) Angela Alessandra Notarnicola ‘Suzuki’ (da sinistra), Donato Di Gioia ‘Sharpless’, Maria Luisa Lattante ‘Cho-Cho-San’ e il piccolo Diego Malena ‘Dolore’ (Foto di Giuseppe Grieco- Radio Incontro); 2) il M. Ferdinando Redavid dirige l’Orchestra Filarmonica Pugliese; 3) Enrico Terrone Guerra ‘Pinkerton’ e Maria Luisa Lattante ‘Cho-Cho-San’ (Foto di Giuseppe Grieco- Radio Incontro).

Orchestra-Filarmonica-Pugliese-diretta-dal-maestro-Ferdinando-Redavid-e-Gilda-in-Lassu-in-cielo-vicino-alla-madre

‘Festival del Belcanto’ di Turi, premiato il baritono Marcello Rosiello. In piazza capitano Colapietro, Giandomenico Vaccari ‘racconta Rigoletto’

Anche quest’anno, la nostra cittadina è tornata a rivivere le emozioni che per certi versi solo la lirica sa infondere. Da oltre un decennio, ciò avviene grazie alla caparbietà e alla capacità del direttore d’orchestra turese Ferdinando Redavid, che con la sua Associazione ‘Chi è di scena!?’ ha ideato e portato avanti la kermesse del “Festival del Belcanto” elevando la cittadina di Turi, con il suo patrimonio storico ed artistico, a punto di riferimento internazionale della lirica.

La XII° edizione del Festival del Belcanto si è inaugurata nella serata di lunedì 1 Agosto nello slargo dinanzi Palazzo Gonnelli, alla presenza del nostro sindaco Tina Resta. La serata introduttiva strutturata in due momenti così come da prassi, ha visto una prima parte in cui il cultore di storia locale Tino Sorino, ha presentato due suoi saggi sull’indimenticato “Maestro Nino Rota, uno dal titolo “In Seicento o a spasso con Nino Rota” l’altro dal titolo “Nell’intimità di Nino Rota”, editi entrambi da “NeP” nel 2020 e nel 2022. Dall’incontro moderato dal giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Sebastiano Coletta, è emerso un Rota legato convintamente alle sonorità verdiane tanto da orchestrare un “Valzer in fa maggiore” per pianoforte composto da Verdi in onore della contessa Clara Maffei, utilizzandolo come colonna sonora del film “Il Gattopardo” di Luchino Visconti e per l’occasione eseguito al piano dal Coletta insieme ad altri brani.

Nella seconda parte della serata, vi è stata l’assegnazione annuale del prestigioso “Premio Belcanto”, da sempre affidato alle eccellenze liriche del territorio che contribuiscono a diffondere il nome della Puglia nel mondo, quest’anno consegnato al baritono barese di fama internazionale Marcello Rosiello, la cui straordinaria carriera, costruita con grande talento, professionalità e dedizione, lo hanno portato a calcare i più importanti palcoscenici d’Italia e non solo. Assente per l’occasione a causa di un impegno lavorativo in Portogallo, non ha mancato di consegnare un messaggio augurale alla kermesse, così come fatto anche dalla pronipote di Verdi, Gaia Maschi Barezzi Verdi. In chiusura della prima serata, v’è stato l’omaggio musicale al compositore di Busseto celebrato in quest’edizione, da parte dei soprani Valentina De Pasquale e Angela Lomurno, ottimamente accompagnati al pianoforte da Rossella Perrone, cimentatesi in alcune arie da camera poco eseguite del Verdi e due arie tratte dal suo “Simon Boccanegra” e dalla “Traviata”, che hanno emozionato il pubblico per la bellezza e la magistrale interpretazione.

Se la scorsa edizione del 2021, era improntata all’insegna della rinascita della lirica in presenza dopo il doloroso arresto dell’intero settore a causa della pandemia, quest’anno l’obiettivo proclamato della rassegna è stato quello di far intendere la lirica un’arte non più ritenuta ad esclusivo appannaggio degli addetti ai lavori, e di un pubblico colto, ma un arte inclusiva in grado di coinvolgere tutti, anche i meno avvezzi. Compito per il quale si è puntato sulla partecipazione di una figura di rilievo qual è il barese, Giandomenico Vaccari, regista, direttore e sovrintendente di alcuni tra i più celebri teatri e realtà musicali d’Italia, il quale da accorto prosatore, ha portato in scena, un’inedita riduzione del dramma mediante la scomposizione dell’opera stessa, ed il suo racconto semplice ed accattivante intervallato dal suono delle arie e dei brani sinfonici più importanti, rendendola quindi in grado di esprimere nell’immediato il proprio messaggio.

Per la serata del 3 Agosto, l’Opera scelta non poteva non essere che, una delle più intense della produzione verdiana, la quale insieme al “Trovatore” ed alla “Traviata” compone la “Triade verdiana” dal carattere popolare, con cui il genio di Roncole di Busseto (Parma) raggiunse la piena maturità artistica e la fama internazionale. “Rigoletto” l’opera prescelta, è tratta dal dramma “Le roi s’amuse” ossia “Il Re si diverte” di Victor Hugo, rappresentato per la prima volta nel 1832 alla Commèdie-Française, e censurato in Francia per oltre cinquanta anni perché considerato un opera critica contro il regno di Luigi Filippo d’Orleans e della sua corte. La sua trasposizione teatrale avvenuta per mano del librettista Francesco Maria Piave, e la sua orchestrazione da parte di Giuseppe Verdi, ebbe dopo l’intervento della censura austriaca e il cambio di ambientazione e nomi, la prima messa in scena al Teatro “La Fenice” di Venezia nel 1851, procurando immediata fama al “sinfonismo” verdiano, in grado nell’800, di smuovere le masse popolari e borghesi, protagoniste nel processo Risorgimentale Italiano.

La location scelta per la rappresentazione non poteva che essere Piazza Colapietro, sia per l’acustica pressoché perfetta per tali manifestazioni musicali, sia per il suggestivo colpo d’occhio del Palazzo Marchesale turese a far da sfondo all’antica corte nobiliare.

Il Preludio detta quello che sarà il filo conduttore dell’Opera: “La maledizione”. Tema che si ripeterà costantemente nel dramma con la nota DO in ritmo doppio puntato. Tutto si svolge alla corte del Duca di Mantova. Durante una festa a Palazzo Ducale, il Duca parlando con il cortigiano Borsa, gli confida il suo particolare interessamento per una fanciulla incontrata in chiesa, mentre nel contempo corteggia la contessa di Ceprano, esprimendo giudizi arditi e libertini, nella ballata “Questa o quella per me pari sono”. Durante la ballata il buffone di corte, schernisce il di lei marito iracondo, mentre il resto dei cortigiani trama la loro rivalsa verso il giullare, organizzando il rapimento di quella che il Cav. Marullo ritien esserne l’amante.

Improvvisamente irrompe nell’orgiastica festa il Conte di Monterone, vecchio nemico del Duca, che lo accusa pubblicamente di avergli disonorato la figlia oltraggiando il suo onore. Rigoletto, avocando a se il dovere di irriderlo ne provoca la veemente reazione verbale sfociata nel lancio verso entrambi di una “Maledizione”. Immediatamente vien circondato e imprigionato dagli armigeri, il suo destino è segnato: Andrà al patibolo. Ma prima di uscire di scena rincara la dose verso il giullare con, “e tu, serpente, tu che d’un padre ridi al dolore, sii maledetto!”

Parole che si conficcano immediatamente nella coscienza del buffone, ricordatosi d’essere anch’egli un padre. Profondamente colpito, il giullare mentre incede lentamente verso casa viene avvicinato da Sparafucile, che si presenta come un sicario prezzolato di cui potersi fidare. La condizione dei due personaggi li rende assimilabili, e di questo il Rigoletto ne è consapevole quando intona il monologo: “Pari siamo!…io ho la lingua, egli ha il pugnale”. Monologo dal quale ha inizio la profonda meditazione sulla sua infelice vita causata anche dal suo “essere difforme”, e sul suo dissidio interiore, cercando di distogliere la mente dal pensiero ricorrente della maledizione.

Intanto la figlia Gilda attende il padre che l’abbraccia teneramente. Ma di lui e della sua vita a corte non sa praticamente nulla, essendo sempre rinchiusa nelle pareti domestiche, se non per andare a messa la Domenica, con la domestica Giovanna. Il padre, ossessionato dalla paura che la fanciulla possa essere insidiata, chiede alla governante di vegliarla “Veglia, o donna, questo fiore”.

Andato via il vecchio per rientrare a corte, la governante fa furtivamente entrare il Duca, il quale si lancia alla conquista della giovine, con “È il sol dell’anima”, ed altre meravigliose melodie liriche, con le quali Verdi ne connota il personaggio fatuo, magistralmente interpretato dal tenore Francesco Castoro, facendogli esprimere a scopi ingannevoli quel sentimento che in realtà egli non prova mai per nessuna della sue conquiste. Sul più bello, lo spasimante è costretto a desistere dalla sua opera di seduzione data la presenza di qualcuno nei pressi della casa, rumori che lo inducono a scappare. Per Gilda, rimasta sola in casa, il “Maestro” cesella come un merletto l’aria “Gualtier Maldé… Caro nome”, tratteggiandone ancora in questa fase un enfatica tenera vulnerabilità, nell’ingenuo approccio amoroso, delicatamente interpretata con trilli brevi, leggeri, sopratutto chiari, dalla soprano Ripalta Bufo.

Intanto, mossi a vendetta i cortigiani hanno premeditato il rapimento della presunta amante, del giullare e già si aggirano nei paraggi della sua casa. Essi riescono a coinvolgere lo stesso buffone tornato a casa colto da un presentimento, ed al quale fanno credere con un inganno di voler rapire la contessa di Ceprano, facendogli indossare una maschera. Accortosi di essere stato bendato capisce l’inganno, ed il rapimento di Gilda. Ed intonando “Ah, la maledizione”, perde conoscenza.

Rientrato a palazzo, il Duca, che era tornato a cercare la ragazza poco dopo il loro incontro, par effettivamente struggersi per il rapimento della giovane “Ella mi fu rapita”, ma è un attimo, infatti informato dai cortigiani che la giovine è stata nascosta nei suoi appartamenti, intona la cabaletta, “Possente amor mi chiama”, inno al più bruciante dei desideri che immediatamente corre a placare, con tutte le sue conseguenze. Giunge Rigoletto, che fingendo indifferenza, cerca la figlia, deriso dal crocchio di cortigiani. Il baritono Carlo Provenzano, mostra ed espone al pubblico l’intero sfaccettato animo del suo personaggio in grado di passare dal sospetto iniziale mediante la cantilena iniziale “lala, lala”, all’ira pronunciando una delle invettive più importanti della storia della musica “Cortigiani, vil razza dannata”, proseguendo con la commozione “ebben io piango”, per giungere alla prostrazione dinanzi i cortigiani, che vedono così raggiunto finalmente il loro scopo vendicativo.

Lasciato solo nel salone, viene raggiunto da sua figlia. Troppe cose fra i due non son state dette, ed ora necessariamente dev’esservi un confronto. Gilda con “Tutte le feste al tempio” racconta come ha conosciuto il giovane di cui ignorava la vera identità, e di aver perduto l’onore, mentre il padre cerca di consolarla con “Piangi, fanciulla”. In questo esatto momento, la fin’ora sprovveduta ragazza subisce una rapida metamorfosi, conscia di essere diventata “donna” nella stanza da letto del Duca, acquisisce consapevole maturità e si appresta a divenire l’eroina del dramma. Intanto nel mentre il conte di Monterone viene condotto al patibolo, osserva il Duca ritratto in un quadro, e constata amaramente che la sua maledizione è risultata esser vana. Allorché, udite le parole del Conte, l’ingigantito impeto, porta Rigoletto a replicare “No vecchio t’inganni…sì, vendetta tremenda vendetta”. Non si torna indietro, il Duca secondo il gobbo morrà per mano del sicario.

Intanto Rigoletto ha concesso alla figlia un periodo di tempo per dimenticare il Duca. Ma ella lo ama ancora. Deciso a far toccare definitivamente con mano alla figlia chi sia veramente l’uomo, la conduce alla locanda di Sparafucile sulle rive del fiume Mincio, dove si trova il Duca in incognito, adescato dalla sorella del sicario Maddalena. Gilda da uno spiraglio ha così modo di vedere di nascosto l’amato, sempre uguale, smanioso e sol capace di affermare e ribadire fino alla fine il suo credo libertino cantando la celebre romanza: “La donna è mobile”, per poi corteggiare con un “Un dì, se ben rammentomi”, la mezzo soprano Maria Candirri, a proprio agio nei panni drammatici della zingara Maddalena.

Intanto Rigoletto ha concesso alla figlia un periodo di tempo per dimenticare il Duca. Ma ella lo ama ancora. Deciso a far toccare definitivamente con mano alla figlia chi sia veramente l’uomo, la conduce alla locanda di Sparafucile sulle rive del fiume Mincio, dove si trova il Duca in incognito, adescato dalla sorella del sicario Maddalena. Gilda da uno spiraglio ha così modo di vedere di nascosto l’amato, sempre uguale, smanioso e sol capace di affermare e ribadire fino alla fine il suo credo libertino cantando la celebre romanza: “La donna è mobile”, per poi corteggiare con un “Un dì, se ben rammentomi”, la mezzo soprano Maria Candirri, a proprio agio nei panni drammatici della zingara Maddalena. Segue il quartetto più famoso dell’Opera Italiana in “Bella figlia dell’amore”. Rigoletto dà ordine alla figlia travestita da uomo di tornare a casa e partire immediatamente alla volta di Verona, egli invece prende accordi con il sicario, e si allontana dalla locanda.

Mentre si avvicina un tremendo temporale, Gilda, in preda ancora a un’attrazione irrefrenabile, torna presso la locanda e ascolta il drammatico dialogo che vi si svolge. Il padre però non ha tenuto in dovuto conto la diversità dell’animo femminile, e l’amore altruistico di cui una donna è capace, anche se indossa i panni coloriti della prostituta Maddalena, che invaghitasi anch’essa del Duca, supplica il fratello affinché lo risparmi e uccida al suo posto il gobbo non appena giungerà con il denaro. Sparafucile, vantando una sorta di “rigore professionale”, non ne vuole sapere, ma alla fine accetta un compromesso: aspetterà fino a mezzanotte e, se arriverà, ucciderà il primo uomo che entrerà nell’osteria. Gilda capendo che in quella notte non arriverà nessun altro uomo alla locanda, in un atto di estremo amore, mentre fuori infuria la tempesta, entra nella taverna non riconosciuta a causa dell’oscurità e si fa ammazzare a sangue freddo da Sparafucile. È la sublimazione dell’Amore Romantico!

A mezzanotte, come convenuto, Rigoletto ritorna alla locanda e il sicario gli consegna il corpo in un sacco. Il buffone, illudendosi con grande soddisfazione di aver portato a compimento la sua vendetta, si appresta a gettarlo nel fiume quando, in lontananza, sente riecheggiare il canto del Duca. Raggelato, apre il sacco e vi trova sua figlia Gilda, che in un ultimo anelito di vita intona una delle frasi verdiane più disperate V’ho ingannata, colpevole… fui” toccando il cuore per quella sublimazione d’amore. La povera ed innocente Gilda offre al padre l’unica consolazione per i poveri reietti come lui, cantando “Lassù in cielo vicino alla madre”. Quel cielo di delizie immateriali non può esistere per il povero gobbo che, impotente, e messo dinanzi al suo totale fallimento. Rigoletto, disperato, si rende conto che la maledizione di Monterone ha concluso il suo cammino e grida: “Ah, la maledizione!”

L’avvincente coup de théâtre verdiano scioglie la tensione del pubblico in uno scrosciante ed emotivo applauso, accompagnato da una ovazione per gli artisti esibitisi, ed anche per la giovane l’Orchestra Filarmonica Pugliese, magistralmente diretta dal direttore Ferdinando Redavid. Ancora una volta, il risultato preventivato vien largamente superato ed a pieni voti, la riduzione dell’Opera ha mantenuto vivo il messaggio, risultato tutt’altro che scontato. Accontentare lo scrivente, con un Opera, privata  delle scene di contesto, non era minimamente semplice, eppure non se ne è percepita la mancanza.

Aspettando con ansia l’edizione del prossimo anno, mi preme invitare l’Amministrazione Comunale ad andare avanti nel perseguimento dell’obiettivo di riportare la cultura nelle piazze del nostro suggestivo centro storico, perfette sia scenograficamente che acusticamente per tali eventi, e di farlo con una molteplicità di eventi culturali (non ludici) che devono affrancare una buona volta il Cuore del Nostro Paese, affrancamento che dev’essere percepito dai turesi in modo che possano tornare a goderne e riviverne il fascino senza tempo, magari spendendosi essi stessi per un rilancio della Comunità.

Pietro Pasciolla

Didascalie foto, dall’alto: 1) l’Orchestra Filarmonica Pugliese diretta dal maestro Ferdinando Redavid; 2) 1° agosto in piazza Gonnelli, da sinistra: Tino Sorino, Tina Resta, Rossella Perrone, Valentina De Pasquale, Ferdinando Redavid, Sebastiano Coletta, Angela Lomurno; 3) il duetto “È il sol dell’anima” con ‘Gilda’ (soprano Ripalta Bufo) e ‘Duca di Mantova’ (tenore Francesco Castoro); 4) il duetto “Deh, non parlare al misero” con ‘Gilda’ (soprano Ripalta Bufo) e ‘Rigoletto’ (baritono Carlo Provenzano); 5) il duetto “Un dì, se ben rammentomi” con Francesco Castoro (tenore) e Maria Candirri (soprano).

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Le immagini di Sant’Oronzo a Turi: due statue processionali, un’imitazione del Coppola e l’ex-voto di un miracolato

Siamo ad agosto, mese oronziano sia per Turi sia per le altre città e paesi sotto il patronato celeste del Santo Vescovo Oronzo. Ed è un agosto finalmente ‘normale’, anche se la morsa del virus non lascia ancora in pace il mondo. Nell’anno del bimillenario della nascita del Martire, indicata dalla tradizione agiografica nel 22 d.C, con la Festa che si annuncia da capo’grande’, volgere lo sguardo alle immagini del Protettore è un modo per riprendere un cammino di fede turbato dalla paura appena appena trascorsa.

Ma quante immagini di Sant’Oronzo si venerano a Turi? A parte il mezzo busto ligneo e la statua vestita portate in processione il 25, 26 e 27 agosto; a parte le tantissime edicole votive sparse per il paese – la più importante è quella scolpita nei primi anni del Novecento dall’artista-contadino Giuseppe Palmisano sulla facciata della sua casa in via Massari – a Turi vi sono anche due pitture a olio che rimandano al Santo: 1) la pala d’altare con figura intera nella Chiesa sulla Grotta; 2) un ex-voto ad olio conservato in Municipio.

• La pala d’altare nella Chiesa sulla Grotta

La straordinaria diffusione tra XVII e XVIII secolo del culto di Sant’Oronzo nella Terra d’Otranto trovò nella genialità artistica di Giovanni Andrea Coppola – patrizio, medico, e pittore nato a Gallipoli nel 1597 – buona parte della sua fortuna, avendo proprio il Coppola ‘inventato’ il santino devozionale più famoso del Santo-Vescovo leccese. Se pure altri pittori si siano cimentati con la figura del Martire, la fortuna del suo ‘Sant’Oronzo’ della Cattedrale di Lecce è tangibile. Di quell’icona, commissionata al gallipolino dal vescovo Pappacoda (alla guida della diocesi leccese dal 1639 al 1670) esistono, infatti, innumerevoli repliche sparse in grandi e piccoli luoghi di culto del Santo, compresa la Chiesa di Turi. Si può ben dire, perciò, che quello del Coppola rappresenti l’icona ufficiale del Santo Vescovo, anzi, direi quasi la sua ‘carta d’identità’.

Studi e ricerche sul pittore gallipolino indicano quale fonte principale per la raffigurazione pittorica del Patrono le ‘Sacre Visioni’ di Domenico Aschinia, mistico calabrese che lo stesso vescovo Pappacoda ebbe modo di incontrare a Lecce. Nelle ‘Sacre Visioni’Aschinia testimonia che Sant’Oronzo si sarebbe a lui manifestato “vestito delli vescovili paramenti, che portava in mano un bacolo pastorale…, sopra del quale ci era una piccola croce… aveva in suo capo la mitra, nella quale vi era molto lampeggiante una bianca croce. Era egli pieno di luce, ed aveva tale vaghezza il di lui piviale, che non vi è cosa simile a compararseli. Da’ fianchi di costui vi erano due angeli, quasi vestiti con addobbi a color del cielo, e così fieri per una bellezza inesplicabile, avevano vaghi capelli, sopra le fila d’oro”.

L’altare maggiore della chiesa di Sant’Oronzo di Turi – edificata nella prima metà del ‘700 sulla grotta-cripta che la tradizione indica quale ultimo rifugio del Martire – è abbellita da un’icona di media dimensione ispirata proprio alla celebre tela del Coppola. Si tratta, tuttavia, di una copia ‘semplificata’ che dell’originale leccese conserva evidenti richiami alla postura dinamica del Santo in primo piano e negli angeli ai lati. Se il Coppola ha ambientato la scena in uno schema prospettico aperto, l’ignoto autore di Turi – pittore locale del XVIII secolo senz’altro, dallo stile non lontano alle opere dei Conversi (o forse si tratta proprio di loro?) – ha scelto, invece, di far ‘uscire’ la figura di Sant’Oronzo da un fondo scuro, ‘caravaggesco’, squarciandolo con una diagonale di luce che scende dall’alto. Ma l’opera ha subito troppi danni dall’incuria degli uomini e il restauro degli anni ’90 solo in parte ne ha potuto restituire l’originaria lettura.

Di questo quadro i documenti locali ci dicono poco: il ‘Notamento’ degli oggetti d’arte firmato dal sindaco Giovanni Lomastro nel primo decennio dell’800 segnala, a proposito della chiesa sulla grotta che “l’altare maggiore tiene il quadro di S. Oronzo Vescovo di Lecce”; l’inventario del Feudo di Turi stilato dal Tavolario Luca Vecchione intorno al 1740 non menziona quest’opera, ma parla di un altare posto nella sottostante grotta dedicato al “Glorioso Santo Titolare”.

Tuttavia, se il disegno di questo olio ha i limiti che prima si annotavano, la sua peculiarità è nell’essere l’unica pittura del Protettore rimasta a Turi. Di altre icone, pur menzionate nel già citato ‘Notamento’, non vi è infatti più traccia: sull’altare a destra della chiesa di Sant’Oronzo vi era “il quadro di S. Oronzo, S. Giusto, e Fortunato” (indicata come opera del Tatulli); così come nella scomparsa Cappella di S. Giuseppe intra moenia vi era “un quadro di S. Oronzo coi devoti fratelli a’ piedi. Opra recente del… Tatulli”.

• Ex-voto nel Municipio

Per vederlo è necessario chiedere il permesso al Sindaco pro-tempore di Turi in quanto questo piccolo quadretto a olio è appeso nell’ufficio del Primo cittadino. Con molta probabilità il dipinto apparteneva al ‘Santuario’ sulla Grotta ed era uno dei tanti ex-voto che adornavano le pareti della chiesa superiore, tutti scomparsi nel nulla. La tela arrotolata e privo del telaio di supporto fu casualmente recuperata a metà degli anni ’90 del secolo scorso in uno stipo a muro del Palazzo Municipale; l’allora sindaco Domenico Coppi la fece sistemare nell’attuale cornice.

L’immagine raffigura la miracolosa intercessione del Santo vescovo nei confronti di un giovane ferito ad una gamba da un proiettile sparato da un fucile, forse durante una battuta di caccia o un’imboscata. L’opera, di buona fattura, rappresenta un’intima scenetta d’interni ambientata in una stanza da letto spazialmente definita da un pavimento ‘a scacchiera’ verde-arancio; su di un grande letto a baldacchino, posto a sinistra, tra bianche lenzuola bordate di ricami, un giovane nobiluomo in camicia da notte mostra a due uomini il proiettile metallico estratto, per fortuna senza danno, dalla sua gamba; lo sguardo del ‘miracolato’ è rivolto riconoscente al Santo benedicente che gli appare in alto a destra tra luminose e rigonfie nuvole. I due distinti visitatori fissano il parente o l’amico ferito, mentre ascoltano il racconto dell’accaduto: uno di essi, signorilmente abbigliato con una giacca lunga (redingote) azzurra, cappello nero a due punte, parrucca legata da un nastro nero, è vicinissimo al letto verso il quale si sporge per osservare più da vicino il proiettile che la mano tesa del miracolato mostra agli altri personaggi della composizione. L’altro, più discreto, si limita a sollevare il braccio destro per esprimere tutto il suo stupore; è raffigurato dall’ignoto pittore a figura intera, con parrucca bianca, bastone, giacca blu lunga fino al ginocchio, pantalone nero a mezza gamba, calze bianche e scarpino fibiato.

Si tratterebbe, dunque, della raffigurazione di un prodigioso avvenimento che ha visto coinvolto un esponente della nobiltà locale il quale, riconoscente, ha devotamente commissionato ad un pittore di buona mano la visualizzazione in sintesi del tragico avvenimento accorsogli e della miracolosa intercessione di Sant’Oronzo. Gli abiti dei personaggi raffigurati nell’ex-voto farebbero pensare ad un incidente accaduto nei primi decenni o nella prima metà del XIX secolo.

Giovanni Lerede

Didascalie foto, dall’alto: 1) Ex-voto conservato nell’ufficio del Sindaco in Municipio (foto New Art); 2) busto processionale di Sant’Oronzo (foto Fabio Zita); 3) edicola votiva di Giuseppe Palmisano in via Massari (foto Giovanni Palmisano); 4) pala dell’altare maggiore della Chiesa di Sant’Oronzo sulla Grotta (foto Giovanni Palmisano).

La-staffetta-della-memoria-Aldo-Buonaccino

“La staffetta della Memoria”, saggio del prof. Osvaldo Buonaccino d’Addiego

Nell’anno scolastico 1999/2000, il Prof. Osvaldo Buonaccino d’Addiego presentò un progetto di Storia Contemporanea dal titolo “IL VIAGGIO DELLA MEMORIA…. attorno all’uomo” rivolto agli alunni del triennio dell’ITES PERTINI di Turi. Il progetto, realizzato con la condivisione del dirigente scolastico prof. Deleonardis e di tutti i colleghi e personale scolastico, ha perseguito questo obiettivo: aiutare i giovani a capire, a conoscere, non solo utilizzando il libro di testo (che per la verità li allontana per il suo freddo anche se necessario nozionismo), ma utilizzando mezzi e strategie didattiche più consone al loro modo di apprendere.

Al termine del progetto, fatto da 10 lezioni basate sulla visione dei documentari storici e letture dei documenti, il Prof Buonaccino ebbe la brillante idea di tentare il coinvolgimento diretto di testimoni sopravvissuti alla Shoah, che con il loro racconto avrebbero aiutato gli alunni a capire che quanto appreso in classe non era frutto di fantasia o di ricostruzioni ad arte, ma si trattava di verità per la quale c’erano testimoni diretti, che portavano sulla loro pelle e nel profondo dell’anima i segni di un calvario atroce e indicibile. Nell’arco degli anni 2000-2016 i ragazzi dell’ITES PERTINI, ma anche molti ospiti che venivano a scuola attirati dalla unicità di questo evento, hanno ascoltato 16 testimoni e la loro storia toccante, drammatica, intensa, emozionante.

Il Prof. Buonaccino ha raccolto queste testimonianze nel saggio La staffetta della Memoria con l’obiettivo di lasciare traccia delle testimonianze ascoltate, perché, “quando la vita avrà concluso il suo percorso, i nostri amici non cessino di gridare tutto il loro dolore per le atrocità sofferte ma anche di esternare la loro fiducia per i giovani; e noi saremo i loro testimoni per sempre”.

                                                           Il Presidente del Centro. Studi “Aldo Moro”, Mimmo Leogrande

  • Il saggio del prof. Buonaccino d’Addiego sarà presentato a cura del Centro Studi ‘Aldo Moro’ domenica 22 maggio alle ore 19 presso la Chiesa Madre di Turi

Crocifisso-particolare-volto

Certi Calvari del XVII secolo trasudano sangue. Fra Angelo da Pietrafitta nella Chiesa dei Riformati di Turi

Un esempio dei ‘crudi’ Crocifissi del Seicento meridionale è il maestoso Calvario della chiesa francescana di San Giovanni Battista a Turi: un gruppo ligneo policromo sistemato nella seconda cappella sul lato destro della navata comprendente: Crocifisso, Addolorata, San Giovanni Evangelista, Maddalena, Padre Eterno, Spirito Santo e due Angeli reggicalice.

Al centro è l’imponente figura del Cristo in croce ad attirare subito l’attenzione per quelle numerose sottolineature ‘veriste’ su un corpo orrendamente piagato, ferito, cereo, fortemente caricato dal punto di vista emotivo; l’artista scultore volutamente ha insistito sulle piaghe, i lividi, i fiotti abbondanti di sangue da ogni ferita aperta, quasi fossimo di fronte ad una scena horror. Il volto è sofferente, reclinato dal peso di una corona di rovi spinosi più volte girati intorno alla testa. Tutto è realizzato per stimolare la pietas popolare e la contemplazione partecipata, secondo le linee devozionali imposte dalla Controriforma.

Il Calvario turese può, con probabile certezza, essere attribuito al calabrese fra Angelo da Pietrafitta, nativo del cosentino, esponente di spicco di quella folta schiera di frati-intagliatori, i quali, spostandosi da un convento all’altro, hanno saputo riempire le chiese dell’Ordine Francescano del Sud Italia di arredi in legno e soprattutto di Crocifissi dolorosi, realizzati ‘alla spagnola’ sul modello imposto dal caposcuola degli scultori francescani, il siciliano fra Umile Pintorno da Petralia Soprana, il cui seguace più prossimo è stato proprio fra Angelo. Firma e datazione non accompagnano il gruppo scultoreo turese, ma i segni stilistici saltano subito agli occhi in quanto i Crocifissi attribuiti a fra Angelo nella Puglia centro-meridionale (una trentina circa) possono considerarsi delle vere e proprie ‘fotocopie’.

Nella scultura – scrive p. Benigno Francesco Perrone nella sua storia  dei ‘Conventi della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia’ (vol. 3°, pag. 52)  − si riscontrano tutti i connotati, che caratterizzano gli esemplari del maestro calabrese: il volto affusolato, la tornitura delle gambe, la discriminazione dei capelli, la conformazione del torace e il particolare disegno del perizoma”. Il Perrone assegna a fra Angelo anche l’Addolorata e San Giovanni, datando il tutto “attorno al 1697”; tuttavia esclude che la Maddalena, figura assente negli altri Calvari, sia opera del Pietrafitta; è probabile, quindi, l’aggiunta di questo personaggio forse dopo il 1742, visto che nell’Apprezzo del Feudo di Turi il ‘tavolario’ Luca Vecchione, descrivendo la cappella del Crocifisso dei Riformati, scrive: “…dipinto nelle mura, e lamia a fresco li misteri della Passione di Nostro Signore con l’altare in legno, e sotto di essa il Santo Sepolcro con vetriata davanti, il gradino di legname simile con nicchia in cui sta’ collocato il Crocifisso al naturale di rilievo, ed alla destra, e sinistra Nostra Signora Addolorata e S. Giovanni anche di rilievo al naturale…”. La Maddalena, come si può notare, non è menzionata, così come gli Angeli e il Padre Eterno. Il Vecchione, però, ci fornisce una preziosa informazione sull’aspetto originario della cappella: le mura erano dipinte a fresco con “…li misteri della Passione di Nostro Signore”.

La leggenda del Crocifisso che non volle lasciare il Convento

Narra la leggenda che fra Angelo da Pietrafitta scolpì due Crocifissi: uno per il Convento di Rutigliano e l’altro per un paese della sua Calabria. Durante il trasporto verso le terre calabresi di uno dei due Crocifissi avvenne qualcosa di straordinario proprio qui a Turi. Un forte temporale costrinse il convoglio a riparare presso il convento di San Giovanni. Quando smise di piovere si decise di riprendere il viaggio, ma ogni qualvolta si tentava di far uscire dalla chiesa il Crocifisso di fra Angelo veniva giù un forte acquazzone. Dopo vari inutili tentativi fu chiaro che il Crocifisso non ne volesse sapere di lasciare Turi. Si decise così di chiedere al Vescovo il consenso a far rimanere a San Giovanni la grande Croce sofferente. Da allora il Crocifisso dei Francescani è invocato dagli agricoltori turesi durante i periodi di forte siccità, affinché si ripeta il miracolo della pioggia. L’ultima volta è accaduto nel 1990. Dopo un lungo periodo asciutto, il 29 marzo venne deciso di portare in processione − non avveniva da 50 anni − il Crocifisso del frate-scultore. Come è tradizione l’effige del “miracolo” fece il giro del paese, portato a spalla dai sacerdoti.

Giovanni Lerede

Didascalie foto dall’alto: 1) particolare del volto martoriato del Cristo Crocifisso scolpito da fra Angelo da Pietrafitta (foto Giovanni Palmisano); 2) veduta d’insieme del gruppo scultoreo del Calvario nella chiesa San Giovanni Battista di Turi (foto Giovanni Palmisano); 3) processione per le strade di Turi del 1990 per invocare il miracolo della pioggia.

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“Dalla Donna alla Madonna. I gioielli di Rutigliano tra culto e devozione”. Mostra dall’8 marzo al 10 aprile 2022 al MuDiAS di Rutigliano

Dall’8 marzo, in concomitanza con la Giornata Internazionale che celebra la Donna, Palazzo Settanni e il MuDiAS (Museo di Arte Sacra) di Rutigliano divengono scrigno prezioso per un’inedita esposizione di gioielli che hanno dapprima adornato la mise delle donne rutiglianesi e, in seguito, le immagini sacre di Madonne e Santi. “Dalla Donna alla Madonna. I gioielli di Rutigliano tra culto e devozione” è il titolo della suggestiva mostra temporanea, promossa in collaborazione con gli enti ecclesiastici locali, che ha come intento quello di far conoscere l’usanza di offrire in dono i preziosi monili alla divinità, per richiesta di grazia o per grazia ricevuta e, ancor di più, di riscoprire il gioiello come una vera e propria opera d’arte. I gioielli votivi, o ex-voto, esposti nel museo ci raccontano il contesto culturale cronologicamente collocabile tra il Settecento e la prima metà del Novecento, testimoniando i mutamenti avvenuti nella società del XIX e del XX secolo.

Ad arricchire il progetto espositivo saranno due imperdibili eventi:

• Martedì 8 marzo 2022 – CENA INAUGURALE DELLA MOSTRA

Per l’occasione interverranno:

Giovanni Boraccesi, Responsabile Museo Didattico di Arte e Storia Sacra – MuDiAS, in: “I luoghi della devozione a Rutigliano”;

Rita Mavelli, Storica dell’arte – Centro Studi Giovanni Previtali in: “Dall’ornamento prezioso al dono votivo

Al termine dell’incontro, grazie alla felice collaborazione di Tortellino d’Oro-Gastronomia Dolce e Salata e della Cantina Torrevento, allieteremo i palati di tutti gli ospiti con una gustosa cena a tema. Accoglienza: ore 19.15. Ticket: € 18,00 (comprensivi di incontro culturale, visita alla mostra e cena)

La prenotazione alla cena evento è obbligatoria entro il 6 marzo, chiamando il numero 080 4761848, oppure scrivendo a museopalazzosettanni@gmail.com.

• Sabato 2 aprile 2022 – MUSICAL-MENTE DONNE

Serata concerto a cura di KOLEN TRIO: Francesca Borraccesi – clavicembalo; Giuseppina Greco – violino; Francesca Lippolis – violoncello. Accoglienza: ore 19.15. Ticket: € 10,00 (comprensivi di concerto e visita alla mostra).

La prenotazione è obbligatoria entro il 1° aprile, chiamando il numero 080 4761848, oppure scrivendo a museopalazzosettanni@gmail.com.

Come da normativa vigente, l’accesso al Palazzo sarà consentito esibendo il super green pass e indossando mascherina Ffp2. La mostra temporanea “Dalla donna alla Madonna. I gioielli di Rutigliano tra culto e devozione” resterà aperta al pubblico fino a domenica 10 aprile 2022 nei seguenti orari: Venerdì 10.30 – 12.30; Sabato 17.30 – 20.30; Domenica 10.30 – 12.30. È possibile visitare l’esposizione in altri giorni della settimana previa prenotazione. Ticket di ingresso: 3,00 € (comprensivi di passeggiata nel Museo e visita guidata alla Sala dei Gioielli). Partner ufficiali del progetto: Chiesa Santa Maria della Colonna e San Nicola di Bari, Rettoria di S. Anna, Rettoria di SS. Maria del Carmine, Convento delle Suore Crocifisse Adoratrici dell’Eucarestia.

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Pinacoteca Metropolitana di Bari, tre opere di Franca Maranò per la ‘Giornata del Contemporaneo’

Sabato 11 dicembre p.v., in occasione della diciassettesima edizione della Giornata del Contemporaneo indetta dall’AMACI (Associazione Musei d’Arte Contemporanea Italiani), la Pinacoteca Metropolitana “Corrado Giaquinto” di Bari (Lungomare Nazario Sauro) espone tre opere di Franca Maranò (Bari1920-2015) – Ricerca di origine n. 8/42 (1968), Cantastorie: La storia (1982), La paura (1985) – ricevute in donazione dagli eredi dell’artista.

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Franca Maranò, personalità multiforme di pittrice, scultrice, poetessa e ceramista, fondatrice nel 1970,  con altri cinque artisti della galleria ‘Centrosei’ di Bari, è stata la pioniera dell’arte al femminile nella Puglia del secondo Novecento. Ha esposto sue opere in importanti collettive in Italia e all’estero, tra cui il Maggio di Bari (1962), il Premio Termoli (dal 1963 al 1971), l’Expo Arte di Bari (1976, 1977, 1989), il “K18”, Stoffwechsel, Kassel (1981) e diverse edizioni di Art Basel a Basilea (dal 1981 al 1985). Alla produzione di dipinti e ceramiche, dagli anni settanta si affiancano: la serie dei Cuciti, sostituendo il colore con il filo, il pennello con l’ago e il ciclo degli Abiti mentali, realizzazioni polimateriche con tele medievali. Le opere donate alla Pinacoteca appartengono a vari periodi della produzione dell’artista e si aggiungono al pannello in ceramica smaltata, acquistata nel 1989.

Nel pomeriggio della stessa giornata, alle ore 17:30, presentazione della donazione a cura di Christine Farese Sperken, studiosa dell’artista. Ingresso libero per tutta la giornata.

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Anche quest’anno la manifestazione, promossa per raccontare la vitalità dell’arte contemporanea nel nostro Paese, generare nuove forme di coinvolgimento di pubblici e aumentare l’impatto sociale del museo nella comunità di riferimento, si avvale del sostegno della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, della collaborazione della Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e del patrocinio di: Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, Camera dei Deputati, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Cultura, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, UPI – Unione Province d’Italia, ANCI – Associazione Nazionale Comuni Italiani e ICOM Italia.

Didascalie opere di Franca Maranò (Bari 1920 – 2015) esposte alla Pinacoteca Metropolitana (dall’alto)

• Cantastorie: La storia, 1982, tecnica mista su tela, cm 140×290.

• La paura. Dalla serie “I Saccenti”, 1985, acrilico su tela, cm 137×119.

• Ricerca di origine n. 8/42, 1968, olio su tela, cm 120×120.

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I fratelli Sanmartino a Santa Chiara. La chiesa delle Clarisse di Turi scrigno d’arte

Un documento d’archivio pubblicato da Christian De Letteriis ‘svela’ gli autori del maestoso altare maggiore settecentesco di Turi

Su un precedente articolo qui pubblicato, Giovanni Lerede ha lanciato un grido d’allarme circa le pessime condizioni in cui versano tre pregevoli statue di legno, collocate nella chiesa di Santa Chiara in Turi. Nel marzo 1949, dopo il crollo dovuto alla pubblica imperizia delle autorità del tempo, ignare d’aver per le mani un autentico gioiello, la chiesa delle Clarisse fu riacciuffata per i capelli in pochi anni dal Soprintendente Francesco Schettini, che la riconsegnò in pochi anni al culto. Ma l’antico edificio religioso, a tutt’oggi, non smette di riservare sorprese alquanto inaspettate.

L’ultima, in ordine di tempo, è la pubblicazione da parte di Christian De Letteriis, dottore in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Istituto “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, di un documento contabile ritrovato nell’Archivio Storico del Banco di Napoli, datato 1771, il quale recita:

“A Gennaro Sanmartino ducati trenta; E per esso all’argentiere Andrea Russo a complimento di ducati 188.51, poiché li mancanti ducati 158.51 li ha ricevuti in più paghe di contanti e polize e tutti detti ducati 188.51 sono per l’importo di la­vori ed ogni altro fatto di sua arte come siegue per il Monastero delle Monache di Turi, cioè la portellina di argento con boccaglio di rame dorato, con la cas­setta di legname con vestitura di ottone martellato e stuccantato, i sdragalletti di rame dorato per la carta di Gloria da principio e lavabo e raggi di simil rame per la custodia e due cornacopi di rame dorato per li capoaltari con lampade e boccagli per li torcieri di rame inargentato, ed il tutto come sopra aggiustato e convenuto nel seguente modo cioè ducati 15.40 per l’importo del rame occorso ne suoi lavori in libbre 44 alla ragione di grana 35 la libbra, ducati 12.77 per lo peso dell’argento della portellina e chiavetta in oncie 11 e trappesi 8 alla corri­spondente ragione di ducati 13.60 la libbra, ducati 42 per zecchini dieci e trape­si due occorsi per l’indoratura di tutti detti lavori alla ragione di ducati 4 ognu­no, compresovi tutto il magistero ducati 4.50 per inargentatura occorsa per det­ti lavori ducati 4.94 per libbre 19 di ottone occorse nella detta casetta a grana 26 la libbra. Ducati 1.90 per la spesa della casetta di legname, mascatura e chiavet­ta di ferro nella portellina e per le cartepecore dell’Imprincipio e lavabo e duca­ti 107 per lo prezzo tra di loro convenuto della manifattura di tutti detti lavori, compresovi i modelli e tutta la saldatura di argento bisognata in detti lavori di rame e poiché detti soli lavori ed ogn’altro il sudetto Andrea Russo si è dichiara­to contento e sodisfatto de sudetti prezzi e valori, per cui non ha altro per li detti lavori che pretendere, quindi è che dichiarandosi da esso, che in tal pagamen­to si fa ad esso Andrea Russo in nome e parte del detto Monastero e di suo pro­prio denaro; e con sua firma con autentica di notar Francesco Maria Castellano.”

Dalla contabile si evince come le Clarisse di Turi avessero in precedenza già corrisposto più pagamenti a mezzo contante per 158,51 ducati, all’argentiere napoletano Andrea Russo, e che la suddetta sia servita a saldare gli ultimi 30 ducati dei 188,51 a contratto. I lavori previsti riguardavano le decorazioni argentee, in particolar modo gli ornamenti del maestoso nuovo altare maggiore realizzato a compimento dei sostanziosi lavori di ampliamento della Chiesa.

Da quanto detto si può ben affermare, che con molta probabilità anche i precedenti pagamenti siano avvenuti per interposta persona del Regio ingegnere Gennaro Sanmartino, nella duplice veste di ideatore-progettista e di supervisore-appaltatore dell’intera opera. Secondo il De Letteriis, nella realizzazione della possente ancona d’altare, emerge la soverchiante personalità artistica dell’ingegnere napoletano, che sfruttando e vincolando la scaltrita pratica artigianale di un’ancora anonimo marmoraro, riesce a conferire “sodezza all’impianto tettonico, contrappuntato da ornamenti di una finezza non comune, concessi con rara parsimonia”.

Gennaro Sanmartino operava spesso in sinergia creativa col ben più noto fratello maggiore Giuseppe, oggi conosciutissimo a livello internazionale per la realizzazione dell’iconica scultura barocca dello splendido “Cristo Velato”, presso la Cappella Sansevero a Napoli, voluta dall’egocentrico principe Raimondo di Sangro. Tale sinergia si concretizza in una corposa presenza dei Fratelli in Puglia, documentata a Taranto, Monopoli, Foggia, Martina Franca, Giovinazzo e San Severo. Ciò a sottolineare la loro predilezione per le ricche province pugliesi, da cui provenivano molte delle loro committenze da parte dell’entourage amministrativo del Regno.

Proprio l’analisi documentaria e stilistica sui lavori eseguiti dai Sanmartino presso la Cattedrale di Giovinazzo e la Collegiata di San Martino in Martina Franca, hanno consentito al De Letteriis di parlare dell’altare maggiore di S. Chiara in Turi, come di un esempio della personale declinazione dei Sanmartino nel lessico tardo-barocco, “fatta di chiarezza nell’intelaiatura architettonica fortemente sbalzata; di una netta distinzione tra le parti e ricchezza delle essenze marmoree adottate; dell’utilizzo  discreto degli inserti plastici al fine di non scemare l’integrità strutturale degli organismi di supporto”. Inoltre, quale profondo conoscitore della straordinaria “Civiltà napoletana del marmo lavorato”, in virtù di inequivocabili concordanze stilistiche, pur in presenza di un manufatto seriamente danneggiato dal crollo del ‘49,attribuisce a Giuseppe Sanmartino la manifattura del paliotto dell’altare turese, realizzato con una specchiattura impiallacciata di bariolè di Francia, sul quale è applicato un clipeo a rilievo in marmo, dall’altissima tenuta esecutiva, raffigurante “La Gloria di Santa Chiara”.

L’attribuzione sarebbe confermata anche sotto l’aspetto cronologico della produzione dei due Fratelli in Puglia. Infatti, la data di ultimazione dell’altare turese, 1771, si pone in linea con le presenze di Giuseppe nel 1769 a Foggia, nel 1770 a Taranto e Monopoli e nel 1771 a Martina Franca insieme a Gennaro a cui era stato affidata nel 1769 la progettazione dell’altare nella Chiesa di S. Martino.

Quanto detto sin ora mostra chiaramente il buon gusto artistico delle Clarisse di Turi committenti dell’opera e delle loro spiccate doti patrimoniali, atte a far fronte alle consistenti spese di ristrutturazione del convento e di ampliamento della chiesa. G. Borracesi, storico dell’arte, riporta come dal Catasto Onciario del 1751, il patrimonio delle Clarisse risultasse il più consistente del paese, grazie alle cospicue rendite che esse ricavavano dai beni in loro possesso, oggetto di elargizioni effettuate dalle famiglie nobiliari turesi, e non, per l’ingresso delle loro figlie nell’Ordine. A mio modo di vedere l’altare di Santa Chiara, può essere quindi ben annoverato tout-court quale importante e prestigioso esempio dell’arte tardo-barocca napoletana in terra di Puglia, meritando insieme alla chiesa tutta, il rispetto di una comunità che sin ora non ne ha colto appieno le enormi potenzialità.

Pietro Pasciolla

Fonti

• Documento: Archivio Storico del Banco di Napoli – Fondazione, Banco del SS. Sal­vatore, giornale di cassa, matr. 1677, 4 giugno 1771, ff. 427-428.

• Christian De Lettriis “La chiesa di san Lorenzo a San Severo: gli interventi di Giuseppe e Gennaro Sanmartino, Vincenzo d’Adamo, Antonio Belliazzi, Cristoforo Barberio. Nuovi documenti” in ‘Atti del 39° Convegno Nazionale sulla Preistoria – Protostoria – Storia della Daunia” dell’Archeoclub di San Severo, Anno 2018-19.

Giovanni BorracesiLA CHIESA DI SANTA CHIARA A TURI” in ‘Fogli di periferia, anno VI, n1/giugno 1994, ed. Vito Radio.

Didascalie foto:

1) Paliotto dell’altare maggiore della Chiesa di Santa Chiara di Turi in bariolè di Francia sul quale è applicato un clipeo a rilievo di altissima qualità raffigurante “La gloria di Santa Chiara” attribuito a Giuseppe Sanmartino (foto ‘Il Viandante’).

2) Veduta dall’alto dell’unica navata della Chiesa delle Clarisse con sullo sfondo l’altare maggiore realizzata dai F.lli Sanmartino (foto Fabio Zita).

3) Particolare del bellissimo “Cristo Velato”, l’opera più conosciuta di Giuseppe Sanmartino (foto dal web).

Raffaele-Valentini

Concorso letterario della Casa Editrice “Montag”, il romanzo inedito di Raffaele Valentini secondo classificato

L’ultima fatica letteraria del prof. Raffaele Valentini, direttore del nostro magazine, ha ricevuto un importante riconoscimento. Nella seconda edizione del Concorso Internazionale di Narrativa 2021 indetto dalla Casa Editrice “Montag” (Marche) il nuovo romanzo, ancora inedito, “I fiori sono righe rosse e bianche” è risultato tra le cinque opere finaliste.Nata nel settembre del 2007, la casa editrice marchigiana ha l’obiettivo di incentivare l’arte della scrittura e dare visibilità ai talenti emergenti. Oltre 200 le opere inedite in gara per questa seconda edizione: un numero ragguardevole, che se da un lato ha costretto la Redazione ad affrontare un’importante mole di lavoro, dall’altro ha rappresentato la migliore ricompensa per chi ha ancora voglia di scommettere su autori e autrici, in un mondo editoriale come quello italiano, complesso e difficile da scalare.

L’esito finale dell’edizione 2021 ha visto quale opera prima classificata: “Mizzy, ovvero Il Vecchio Costillo e la miniera”, di Gianpietro Scalia, mentre al secondo posto è risultato il nostro Raffaele Valentini con “I fiori sono righe rosse e bianche”. A seguire: “Sorridi” di Irene Barbagallo, “Il diario di Leroy Dabrowsky” di Mirko Genovese“L’attesa” di Umberto Chiri.

All’amico Direttore i complimenti della Redazione de ‘il paese magazine’ per questo ennesimo traguardo, nella speranza di vedere al più presto in libreria il nuovo romanzo, terzo in ordine di tempo dopo “La prigione sotto la neve” (Manni Editore) e “Ci sarà tempo per chiedermi” (Edizioni ‘Il Papavero’).

San-Filippo-e-San-Felice-bis

San Filippo, San Felice e Santa Candida. Patrimonio di arte e fede che rischia di sparire

Due statue e un reliquiario della Chiesa delle Clarisse di Turi

A Turi sono molte le opere d’arte da restaurare. Tre di queste sono da salvare urgentemente per strapparle non solo alla distruzione definitiva ma anche all’immeritato oblio nel quale sono cadute da decenni, eliminate dal culto, ignorate e abbandonate al loro destino. Eppure si tratta di statue lignee che risalgono quasi certamente alla seconda metà del XVIII secolo, quando la chiesa delle Clarisse subì una profonda trasformazione. Le statue sono ciò che resta del ricco apparato sacro della Chiesa di Santa Chiara andato in parte disperso dopo la soppressione dell’annesso convento, complesso religioso edificato nel cuore del paese grazie – come scrive Giovanni Boraccesi – alla “generosa beneficenza dei fratelli Vittorio (canonico) ed Elia de Vittore che, ultimato nel 1631, fu destinato ad educandato femminile”.

Le tre sculture di legno dipinto rappresentano, a figura intera su base sagomata, San Filippo Neri e San Felice da Cantalice, mentre a mezzobusto è il reliquiario di Santa Candida. I due Santi, come si può leggere nel ‘Notamento’ firmato dal Sindaco Lomastro e datato 1811, erano sistemati su rispettivi altari: “Nell’altare di S. Felice a Cantalicio vi è la statua di pietra del detto Santo (le due statue, in realtà, sono di legno, ndr). In quello di S. Filippo Neri vi è la simile statua”. La dedica di specifici altari dimostrerebbe che non solo le signore monache ma tutti i turesi avevano a cuore anche il culto verso questi due Santi, che in vita si conoscevano ed erano amici essendo nati entrambi intorno al 1515 (wikipedia.it); la devozione, mano a mano scomparve o si affievolì notevolmente, presumibilmente dopo quel dicembre 1891 quando – come riferisce Don Pasquale Pirulli – “le soppresse Monache chiariste di Turi abbandonarono volontariamente il fabbricato del loro Monastero…”, probabilmente a causa delle continue pressione da parte delle Autorità comunali che reclamavano a gran voce il possesso sia della chiesa sia del convento.

I due altari catalogati nel 1811 sono scomparsi, distrutti con ogni probabilità dal crollo della volta avvenuto nel marzo 1949 o forse già abbattuti in precedenza; da allora le sopraddette sculture dovettero passare in deposito, prima visibili nel coro superiore, attualmente occluse alla vista di tutti in una camera-deposito adiacente la sacrestia. Il Tavolario Vecchione, nel suo ‘Apprezzo’ del 1746 non cita né gli altari né le statue di questi Santi, segno che a quel tempo gli uni e le altre ancora non c’erano in Santa Chiara (il frate cappuccino San Felice da Cantalice fu canonizzato solo nel 1712). Si può ipotizzare che i due Santi possano essere stati ‘sponsorizzati’ dalle badesse in carica in quegli anni, oppure sostenuti da qualche abbiente del paese, nel contesto dell’edificazione del nuovo monumentale altare – un recente studio di Christian De Letteriis ne assegna la realizzazione a Giuseppe e Gennaro Sanmartino (vedi l’articolo di Pietro Pasciolla pubblicato su ‘il paese’ 294/giugno 2021) ­– con la grande tela del pittore campano Carlo Amalfi (1770) e della trasformazione di tutta la chiesa conventuale, grazie alle “cospicue rendite che le Clarisse ricavavano dal proprio patrimonio… il più consistente del paese” come riferisce sempre lo studio di Boraccesi.

Le effigie di San Filippo e San Felice appaiono come sculture realizzate da un unico artista di buona esperienza: il Santo cappuccino ha la figura dinamica nella posa delle gambe e nell’abbraccio del Bambin Gesù. San Filippo, sguardo rivolto al Cielo, ha il lungo camice sacerdotale arricchito di pieghe, la casula (o pianeta) e il manipolo appoggiato a un braccio, impreziosite da dorature e decorazioni floreali. Quest’ultima scultura si mostra come la più danneggiata (una delle mani è priva delle dita), ma entrambe sono state attaccate dal tarlo e presentano distacchi di colore. Un restauro, quindi, è urgente se le si vuole salvare per restituirle, come è doveroso, al patrimonio storico-artistico della nostra città.

La malasorte ha colpito anche la terza scultura, sicuramente più antica, appartenuta alle Clarisse: il mezzobusto-reliquiario di Santa Candida martire e vergine. L’immagine, come le altre, è scolpita in legno, ha la veste dorata e tra le mani ha la palma e il libro. Il mezzobusto poggia su una base con un vano finestrato dove è riposto un osso cranico. È molto deteriorata a causa del cattivo stato di conservazione e del tarlo. Vecchione nel suo ‘Apprezzo’, a proposito del “Monastero di donne Monache sotto il titolo di S. Chiara”, scrive: “A man sinistra sonovi tre Cappelle anco dentro muro, la prima sotto il titolo di S. Marco Jus Patronato del Reverendo Capitolo, la seconda di S. Domenico Jus Patronato della Camera Baronale, la terza di S. Candida, tutte e tre con l’Altare di fabbrica, e gradini di legno…”. Vi era un altare dunque dedicato a questa Santadei primi secoli del cristianesimo; Boraccesi data il busto-reliquiario al Seicento, il sindaco Lomastro, però, stranamente non lo cita nel suo inventario d’inizio Ottocento.

Fonti bibliografiche

  • Giovanni Boraccesi, “La Chiesa di S. Chiara a Turi”, in ‘fogli di periferia’ anno VI, n. 1/giugno 1994, ed. Vito Radio;
  • Don Pasquale Pirulli, “La fondazione e il patrimonio del Monastero di Santa Chiara in Turi”, in ‘sulletracce’, quaderni del Centro Studi di Storia e Cultura di Turi n. 5-6-7/2002-2004, Schena editore.
  • Pietro Pasciolla, “I fratelli Sanmartino a Santa Chiara”, in ‘il paese’ 294/giugno 2021