Un autentico “sogno lirico” ha pervaso dal 28 di luglio il nostro Borgo antico ed il pubblico intervenuto alla kermesse musicale del “Festival del Belcanto”, giunta quest’anno alla sua XIII° Edizione. Nella serata conclusiva del 3 agosto, nel suggestivo salotto ‘barocco’ di Piazza Capitan Colapietro, incorniciato dal settecentesco Palazzo Marchesale Venusio, è andato in scena un autentico viaggio temporale dal titolo “Il Teatro di Puccini. La sua scena, tormento ed estasi”, diretto e narrato dal regista Giandomenico Vaccari, già soprintendente della Fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari, musicato dall’Orchestra Filarmonica Pugliese-OFP diretta dal M° Ferdinando Redavid, con le coreografie realizzate dal coreografo Domenico Iannone e inscenate dalle ballerine Silvia di Pierro, Paola Altamura ed Elisa Carbone della “Compagnia AltraDanza” di Bari.
Un omaggio dunque, al teatro, alla musica e alla vita del compositore italiano Giacomo Puccini, il più famoso e conosciuto del suo tempo insieme a Richard Strauss, a quasi cent’anni dalla sua scomparsa. Quel Puccini che, comprendendo ben subito il cambiamento in atto rispetto ai tempi di Verdi con l’affermarsi dell’industria culturale in grado di diffondere le opere in giro per il mondo, sentiva, come pochi, la necessità di capire il suo pubblico e di comprenderne gusti, tendenze e passioni, rappresentando musicalmente i sentimenti e generando un “sinfonismo operistico” equilibrato, fatto di varietà, rapidità, sintesi e profondità psicologica dei suoi personaggi, comuni, spesso soccombenti e femminili, dando una sostanziale spallata all’Opera magniloquente del’800.
Sotto la volta stellata, rinfrescata da un piacevole zefiro, la narrazione del Vaccari ha seguito un andamento temporalmente sciolto, iniziando con la rappresentazione nella “Boheme”, dell’autentico e puro amore fra il poeta Rodolfo e la dolce ricamatrice di fiori Mimì, ostacolato dalle condizioni di povertà e malattia nella Parigi del 1830. Racconto proseguito nel lontanissimo Giappone, della sofisticata ed esotica “Madama Butterfly”, con la sua inquieta e moderna eroina Cio-cio-san, dotata di una fede incrollabile nell’amore e di un granitico senso dell’onore. Narrazione condotta poi nella Roma papalina, ai tempi della repressione post-repubblicana, con la tragedia universale dell’inafferrabilità dei desideri e delle promesse non mantenute della “Tosca”, opera dirompente e dal fascino estremo, in grado di irretire lo spettatore col suo ritmo musicale travolgente, privo di tempi morti, e con la sua protagonista dotata di una personalità passionale, sensuale, ma anche profondamente credente in Dio.
Punto d’approdo della serata è stato nuovamente l’Oriente con la misteriosa Cina imperiale della sanguinaria principessa Turandot. Opera ultima ed incompiuta del M°, la “Turandot” è intrisa del Mistero dell’Amore, incarnato in maniera diametralmente opposta dalle due eroine. Difatti alla granitica principessa Turandot, personaggio femminile debole e disequilibrato, che ostenta terrore e morte, per proteggersi dall’eros, astraendosi in un mondo dove esiste solo la mente e l’anima, si contrappone la debole e umile Liù, forte e coerente perché essa ha coscienza dell’amore nella sua forma più pura, dandone dimostrazione mediante il sacrificio, che consente all’amato di amare non lei ma un’altra donna.
La serata ha riproposto anche l’opera comica “Gianni Schicchi”, basata su un episodio del XXX° Canto dell’Inferno di Dante. Opera facente parte del “Trittico” insieme a Suor Angelica e a Il Tabarro, ambientata a Firenze, e narrante lo scontro di classe, fra nobili e uomini della “gente nova”. Schicchi uno di quest’ultimi, acuto e perspicace, disprezzato dalla nobiltà si prenderà gioco dei nobili, ingannandoli astutamente.
Ma la composizione Pucciniana, non ha riguardato solamente l’Opera, ma ha anche deliziato il pubblico con autentici capolavori sinfonici. Il “Preludio sinfonico”in La maggiore, riscoperto dalla critica da alcuni decenni è una fantasia sinfonica priva di programma, realizzata in un unico movimento “andante mosso”. Una composizione dagli echi wagneriani e con un chiaroscuro musicale d’innegabile effetto, assai ricco ed elegante nella sua ultima parte. Eseguito splendidamente in apertura della serata dalla OFP.
Impossibile, non ascoltare l’intenso ed elegante intermezzo della prima opera di successo pucciniana, la “Manon Lescaut”, un autentico gioiello del sinfonismo italiano, in cui confluiscono i sentimenti di disperazione dell’eroina. Intermezzo che inizia con la cantilena desolata di una viola, cui fa seguito col rifiorire della speranza, l’ingresso degli altri strumenti delineandone il tema principale, per poi chiudersi nel finale con un motivo celestialmente colorato dalla timbrica dei fiati, inerente il destino dell’eroina.
Durante la serata, si sono alternati sul palco due tenori, come Salvatore Cordella e Joan Lainez, e due soprano, Grazia Berardi e Valentina De Pasquale.
Le arie tratte da “Boheme”, “Che gelida manina”, “Sì, mi chiamano Mimì”, e il successivo duetto “O soave fanciulla” sono stati interpretati dai bravissimi Salvatore Cordella e Valentina De Pasquale.
In “Vogliatemi bene, un ben piccolino” tratto dalla “Madama Butterfly” si sono magistralmente cimentati Grazia Berardi e Joan Lainez, con quest’ultimo che ha poi interpretato l’arioso “Addio asil fiorito”. Sempre da “Madama Butterfly”, Grazia Berardi ha interpretato con gran raffinatezza il celebre “Un bel di vedremo”.
Nei panni di Tosca, Grazia Berardi, ha accoratamente intonato il celebre “Vissi d’arte, vissi d’amore”, dimostrando di sentir sua quest’opera, mentre Salvatore Cordella nei panni di Mario Cavaradossi, ha eseguito con trasporto l’arioso “E Lucevan le stelle”.
Magnifica è stata l’interpretazione di “O mio babbino caro” di Valentina De Pasquale, tratta da Gianni Schicchi, e quella del “Nessun dorma” di Joan Lainez, tratta da Turandot.
Interpretazioni, che ancora una volta sottolineano l’alto livello, raggiunto dalla kermesse musicale turese.
Non ci resta che darvi appuntamento al prossimo anno, Centenario della Morte del Maestro Giacomo Puccini.
Pietro Pasciolla
Didascalie foto di Mariagrazia Proietto:1) piazza Cap. Colapietro con il palco del Festival del Belcanto; 2) Il M° Ferdinando Redavid; 3) Il tenore Joan Lainez e la soprano Grazia Berardi in “Vogliatemi bene, un ben piccolino” da ‘Madama Butterfly’; 4) Silvia di Pierro, Paola Altamura ed Elisa Carbone della Compagnia “AltraDanza” di Bari.
Turi torna ad essere Città della lirica! Siamo infatti nelle notti di mezza estate e, come in un “sogno”, nel borgo antico torna a pulsare il cuore della musica lirica. È ritornato infatti quest’anno, per la XIII° edizione, l’ormai irrinunciabile kermesse musicale del “Festival del Belcanto” ideata e portata avanti dalla caparbietà e dalle capacità del direttore d’orchestra turese Ferdinando Redavid, con la sua Associazione ‘Chi è di scena!?, che negli anni ha elevato la cittadina di Turi a punto di riferimento internazionale della lirica.
Se lo scorso anno, l’obiettivo della rassegna era stato quello di far intendere la lirica non più come un fenomeno di nicchia ad esclusivo appannaggio degli addetti ai lavori e di un pubblico colto e anziano, ma come fenomeno inclusivo e in grado di coinvolgere tutti, anche i giovani e i meno avvezzi, quest’anno, proseguendo il cammino, ci si è concentrati maggiormente sulla formazione dei giovani, attivando una stretta collaborazione con l’Accademia di “Palazzo Pesce” a Mola di Bari, diretta da Margherita Rotondi. La Puglia vede una particolare effervescenza giovanile nell’avvicinamento alla lirica che porta molti ragazzi e ragazze a intraprenderne poi la carriera. L’obiettivo è quello di seguire questi giovani nel loro percorso di formazione, proprio perché sono il futuro del “Canto lirico italiano” candidato ufficialmente dall’Italia, nel 2022, quale Patrimonio immateriale dell’Umanità Unesco.
La rassegna, quest’anno si compone di tre serate: quelle del 28 e 30 luglio e quella conclusiva del 3 agosto. La serata introduttiva del 28 luglio, ha visto l’esibizione proprio di due giovani promesse pugliesi del panorama operistico: il soprano Martina Tragni e il baritono Gianpiero delle Grazie, scelti tra tanti aspiranti cantanti durante una “master class” tenutasi presso “Palazzo Pesce” e che li ha visti alla fine meritevoli della borsa di studio messa a disposizione proprio dal Festival turese e loro consegnata nella medesima serata. Accompagnati al pianoforte dalle sapienti mani di Lucrezia Messa, esperta “vocal coach” e docente presso il Conservatorio “N. Piccinni” di Bari, i due giovanissimi si sono molto ben calati nei diversi personaggi interpretati, mostrando già un buon controllo del palco. La giovanissima soprano si è cimentata nell’interpretazione delle arie “Caro nome” dal “Rigoletto” di Giuseppe Verdi, e “Regnava nel silenzio” dalla “Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizetti, dimostrando un buonissimo controllo dei sovracuti. Il giovane baritono, invece, si è cimentato con una buonissima accuratezza del fraseggio nelle arie “Come Paride vezzoso” da “L’elisir d’amore” di Donizetti, e “A un dottor della mia sorte” tratta da “Il Barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini. I due poi hanno duettato in “E il dottor non si vede, Pronta io son!” tratta dal “Don Pasquale” sempre di Donizetti.
La serata ha visto la partecipazione della guest star di fama internazionale Paoletta Marrocu, soprano nominata nel 1998 a Parigi dall’Unesco “Artist for Peace”, e che in carriera ha calcato le scene dei teatri tra i più importanti al mondo fra cui: Auckland, Barcellona, Milano, Palermo, Seoul, Shanghai, Tokyo, Venezia, Verona, con ben cinquanta titoli operistici a comporre il suo repertorio. L’artista ha dato saggio ai presenti dell’unicità del suo timbro vocale, plasmando con accenti ed espressioni i personaggi interpretati. Ha aperto la serata canora con “Che fai tu Luna in ciel” del compositore pugliese Umberto Giordano, proseguendo con “Voi lo sapete o mamma” dalla “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni e “Stride la vampa” da “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi, chiudendo la serata, con una straordinaria “Habanera” da “Carmen” di Georges Bizet.
Al centro della serata, come ogni anno, vi è stata l’assegnazione del prestigioso “Premio Belcanto”, da sempre affidato alle eccellenze liriche del territorio pugliese che contribuiscono a diffondere il nome della Puglia nel mondo, quest’anno consegnato al grandissimo tenore Salvatore Cordella originario di Copertino (LE), conosciutissimo oltreoceano, che si esibirà nella serata conclusiva del 3 agosto.
La seconda serata della kermesse, quella del 30 luglio, intitolata “Canzoni di lungo viaggio” è andata in scena sempre nel nostro borgo antico nell’accogliente spiazzo dinanzi “Palazzo Gonnelli” ed ha visto la presentazione al pubblico di un “recital” su cofanetto musicale prodotto dalla “Dodicilune Edizioni Discografiche e Musicali”, eseguito dal vivo dai due artisti ideatori dello stesso, ovvero: il pianista Vincenzo Cicchelli, concertista dall’ampio repertorio che include la liederistica tedesca, la musica da camera spagnola, inglese, russa e italiana, fino alla musica sacra; e dalla mezzosoprano Margherita Rotondi dotata di un vasto repertorio, che le è valso molte importanti recensioni positive dalla critica.
Questo lungo viaggio, ci ha portato dapprima nella terra degli chansonniers francesi, Piaf, Trenet, Montand, Weill,proseguendo nella lontana America latina, ove le malinconiche note di Consuelo Velàzquez, Carlo Gardel e della milonga di Astor Piazzolla, hanno rapito il pubblico presente, che poi si è ritrovato nell’ultima tappa del viaggio, cioè gli Stati Uniti d’America, ove con le note magistralmente interpretate di “Summertime” di George Gershwin e di “Tonight” di Leonard Bernstein, Margherita Rotondi ha letteralmente condotto il pubblico in un “autentico sogno”, dal quale non vogliamo destarci prima della serata conclusiva del 3° agosto, con “Il Teatro di Puccini. La sua scena, tormento ed estasi”.
Pietro Pasciolla
Didascalie foto
Serata del 28 Luglio (da sinistra): il soprano Martina Tragni, il baritono Giampiero delle Grazie, Lucrezia Messa pianista, il direttore del festival Ferdinando Redavid e l’ospite d’onore, il soprano Paoletta Marrocu.
Serata del 30 Luglio: il pianista Vincenzo Cicchelli e il mezzosoprano Margherita Rotondi nell’esecuzione di un brano tratto dal loro “Canzoni di lungo viaggio”.
“Tra le personalità artistiche cui la Puglia ha dato i natali – scrive nel 1994 Giovanni Boraccesi – vi è quella del pittore Samuele Tatulli (1754 – doc. 1826) le cui vicende, sebbene ancora oscure vanno comunque sempre più delineandosi per i continui contributi offerti dalla critica…”. Fu proprio Boraccesi in due studi pubblicati sul periodico di identità editoriale ‘Fogli di periferia’ ad indicare, grazie anche ad un preciso riferimento archivistico riguardante il Notamento del Sindaco Lomastro del 1811, l’inedita attribuzione di due tele della chiesa di Santa Chiara al nostro pittore, peraltro originario di Palo del Colle (e non di Conversano come annotano alcune fonti e, a volte, anche lo stesso Tatulli) e i cui dipinti sono stati finora rinvenuti in Puglia e Basilicata (Ferrandina, Rutigliano, Oria, Palo, Conversano, Noci, Noicattaro, San Vito dei Normanni, Mottola, Turi, Bari) coprendo un arco di tempo che va dal 1781 (Ferrandina, Madonna del Rosario) al 1826 (Bari, San Marco).
A Turi Samuele Tatulli non realizza solo i due quadri per la chiesa delle Clarisse, raffiguranti rispettivamente la Natività con Sam Marco e la Crocifissione, ma anche altre tre opere registrate nel sopramenzionato Notamento del 1811, a quel tempo compilato dal sindaco di Turi Lomastro e a noi purtroppo non pervenute. Infatti, nella cappella intra moenia di S. Giuseppe, poi scomparsa, erano custoditi «un quadro di S. Oronzo coi divoti fratelli a’ piedi. Opera recente del suddetto Tatulli». In quella extra moenia di S. Oronzo, «il quadro di S. Oronzo, S. Giusto e Fortunato» nonché quello «di S. Elena con la Croce. Questi due ultimi sono pitture del predetto Tatulli.»”.
Tornando alla chiesa delle Clarisse di Turi c’è da dire che i due dipinti, posti in posizione speculare ai lati dell’unica navata rappresentano, non casualmente, l’inizio e la fine del percorso terreno del Cristo: tenera e festosa la visione della nascita di Gesù Bambino tra pastorelli e angeli e un singolare San Marco evangelista. Di contro, drammatica e dolente la raffigurazione del Golgota, con il Nazareno agonizzante in uno scenario di desolato dolore.
La Crocifissione, che Boraccesi attribuisce “per affinità stilistiche e tipologiche” al Tatulli della dirimpettaia Natività, anch’essa non firmata ma ascritta da Lomastro al pennello del prolifico pittore di Palo, vede al centro della scena del Calvario l’imponente figura di Gesù Crocifisso, appeso al legno, che taglia in due la tela, contorto dagli spasimi dell’agonia. Il Cristo con il peso del suo corpo giunto all’ultimo debole respiro ha inclinato la croce sporgendosi verso la Madre Dolorosa che occupa tutto lo spazio a sinistra. Vi è quasi un dialogo muto tra Madre e Figlio: gli sguardi sembrano cercarsi, la Vergine addolorata si abbandona toccandosi con una mano il petto lacerato. A destra della croce, nell’altro spazio, Maria Maddalena è in ginocchio in primo piano, la disperazione la fa aggrappare ai lunghi capelli chiari che la sua mano intreccia, il naso e gli occhi, arrossati dal lungo pianto disperato, colorano un volto impallidito; dietro di lei, in piedi sotto l’ombra proiettata dal Crocifisso, Giovanni il prediletto si dispera stringendo forte le sue mani. Sullo sfondo, un gruppetto di angioletti rompe la monotonia di un cielo carico di tempesta, su un accenno sfocato di paesaggio roccioso.
Tatulli sceglie qui, come nella Natività, il forte contrasto dei colori delle vesti: tra il blu del manto di Maria, il giallo e il bianco della Maddalena e il rosso-verde di Giovanni. Un gioco di cromie accese che crea quasi un movimento circolare intorno alla croce, un vortice emotivo ben sottolineato dal movimento delle mani e dei volti, dalle pieghe dei panneggi. Ma è il corpo abbandonato del Cristo, con la carne che quasi si lacera, il volto coronato di spine e sanguinante e quel ricco panneggio bianco al centro della tela, il punto più alto della drammatica rappresentazione.
Il quadro, come altre opere superstiti della chiesa delle Clarisse di Turi, porta i segni del tragico crollo del marzo 1949, quando l’intera volta dell’edificio collassò apportando ferite indelebili alle opere d’arte lì conservate, tra le quali la Crocifissione dove appaiono evidenti i distacchi di colore sulla veste della Madonna. Ferite che, il restauro promosso dall’allora Soprintendente Schettini, strenuo difensore della ricostruzione tout court che altri osteggiavano con deboli argomenti, ha potuto solo in parte mitigare, restituendo integrità a questa bella tela del Tatulli.
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Nella “Natività” la Sacra Famiglia è in luce ma in secondo piano; in avanti, invece, è la sagoma possente dell’evangelista Marco avvolta in una lunga tunica verdastra, riconoscibile dal leone ai suoi piedi, attributo iconografico specifico di questo Santo, spettatore in penombra pronto ad annotare con la piuma bianca che ha tra le dita della mano destra la “buona notizia” – la parola “Vangelo” in greco vuol significare proprio questo – del prodigio di un Dio fatto uomo, destinato a cambiare il corso della storia. Ma qui c’è un serio problema di interpretazione: il Vangelo di Marco è l’unico a non parlare per niente della nascita di Gesù tra quelli canonici del Nuovo Testamento, mentre lo fanno più specificatamente Luca e Matteo. E allora perché il pittore sceglie di rappresentare l’evangelista Marco? Che ci azzecca? Sicuramente Tatulli sa che il Vangelo secondo Marco, ignorandone completamente l’infanzia, avvia il racconto della vita del Messia dal battesimo ricevuto dal Battista sulle rive del Giordano. E’ probabile, quindi, che la scelta di rappresentare Marco sia una forzatura teologica legata alle richieste della committenza, forse particolarmente legata alla devozione verso questo Santo.
Il Tatulli pone il Bambino al centro della raffigurazione, con la Vergine che lo sorregge amorevolmente mentre lo indica con lo sguardo ad un pastorello adorante; Giuseppe, invece, conversa con altri due personaggi venuti a rendere omaggio al Figlio di Dio. Il gioco dei volti, l’intreccio degli sguardi, lo svolazzare degli angeli in alto, il pallio rosso fiammante del barbuto Evangelista, e la scelta di porre la Santa Famiglia su un piano elevato, danno a questa composizione – che in generale si inquadra in un consolidato cliché iconografico e devozionale – un certo dinamismo circolare, quasi fosse un vortice che trova la sua energia vitale nel Bambinello sceso in terra per redimere i peccati dell’umanità.
Il dialetto di Turi protagonista e declamato dal sociologo e poeta turese Pasquale Del Re nelle brevi rappresentazioni teatrali, letture, proverbi e detti popolari promosse dalle Pro Loco della Delegazione Peucezia Sud in occasione della Giornata Nazionale del Dialetto e delle lingue locali che si celebra, come ogni anno, il 17 gennaio nella storica Chiesa dell’Addolorata, nel cuore del borgo antico di Casamassima.
Davanti ad un Auditorium gremito, la Pro Loco di Turi è stata rappresentata dal turese Pasquale Del Re, presidente dell’Associazione Culturale “I Dìscjadìsce” che ha recitato alcune sue poesie: “L’Amecìzzje”, “Nu specchje andìche” e la “La rùzzene”. Nel finale è stata proiettata la canzone turese in dialetto “Uè uè terèse” testo di Pasquale Del Re e musica e voce di Andrea Lenato. Il brano ha deliziato tutti i presenti ed è stato particolarmente apprezzato per il suo romanticismo e per la sua ironia tagliente.
“La Giornata Nazionale del Dialetto e delle lingue locali rientra nella più ampia azione avviata dall’Unpli per la tutela e salvaguardia dei patrimoni culturali immateriali. – afferma la presidente della Pro Loco di Turi, Rina Spinelli – Ogni singola espressione in dialetto è veicolo delle conoscenze e delle tradizioni dei nostri territori. Dialetti e lingue locali sono pertanto indispensabili alla trasmissione di tali patrimoni culturali fra le generazioni. Dalle immagini della serata, trascorsa in armonia e sinergia, sarà realizzato un contributo multimediale che raccolga e unisca i diversi accenti della nostra Terra“.
Michele Cellaro e Raffaele Valentini a Palazzo Viceconte (già Venusio). Contrabbasso in concerto per due storie: le loro, forse di tutti. “Un contrabbasso e il sogno” scritto da R. Valentini e musicato da M. Cellaro è la storia, il sogno di uno strumento che mostra di avere una vita propria, coincidente o ugualmente importante come quella del suo Maestro. Un legame unico e totale, indissolubile. Li vedi mentre suonano in perfetta sintonia, guardandosi negli occhi, innamorati, senza sguardi e pensieri per nessun altro. Perché strumento e musicista hanno una sola anima, non si può mai sapere dove finisca l’una e dove incominci l’altra. Perfetta e avvincente l’esecuzione dei “Solisti Lucani”, con il contrabbassista Marco Cornacchia, eccellente interprete solista, e al violino la bravissima solista Roberta Lioy.
Il secondo brano della serata è stato “Un contrabbasso in cerca d’amore” del Maestro Franco Petracchi, uno dei più grandi contrabbassisti al mondo, di cui Cellaro è stato allievo. E Petracchi era presente in sala, spettatore interessato. Intensa e divertente la sua presentazione del brano “non autobiografico” (ci ha tenuto a ripetere soprattutto alla sua signora seduta accanto). In questa seconda storia il Maestro Cellaro è stato contrabbassista solista, bravissimo e coinvolgente come sempre, insieme all’attrice Leonarda Saffi e al ballerino Roberto Vitelli. La sala piena di spettatori ha seguito con molta partecipazione e piacere le quasi due ore di performance.
Michele Cellaro e Raffaele Valentini sono amici d’infanzia. Non si sono mai persi di vista. Da tempo compongono insieme storie originali, molto apprezzate dal pubblico di ogni dove. Due persone di riferimento. Due risorse della nostra città.
Esiste una Turi di cui andare orgogliosi, una Turi dal conclamato successo artistico che ci lusinga, e deve essere da sprono nell’approntare nuove idee progettuali che puntino maggiormente su un offerta culturale di qualità sia per le nuove generazioni, sia per un rilancio culturale dell’intera comunità cittadina anche in prospettiva di una promozione culturale e turistica. Succede così, che Turi esporti, ed è un bene, la riconosciuta professionalità di due noti artisti, nella vicina e suggestiva meta turistica di Polignano a Mare, in occasione dell’importante rassegna musicale “FramMentiD’ARTE”. Partecipazione fortemente voluta dall’Associazione “Musicad’InCanto Davide Gaetano D’Accolti APS”, promotrice ed organizzatrice nel ricordo del ventitreenne barese Davide Gaetano D’Accolti, studente di ingegneria elettronica e del Conservatorio di Bari, rimasto vittima di un terribile incidente sulla S.S.16 presso Bari. Così per la seconda serata della rassegna, prevista per sabato 13 Agosto, presso la suggestiva cornice di piazza Suor Maria La Selva, affacciata sul mare, poi spostata per maltempo presso la tensostruttura del Polivalente Gino D’Aprile, è andata in scena “Un sogno in musica: il racconto di Madame Butterfly” ispirata all’opera in tre atti, “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini, inscenata per la prima volta il 17 febbraio 1904 al “Teatro alla Scala” di Milano, e tratta dalla tragedia giapponese “Madame Butterfly” di John Luther Long.
La versione dell’opera proposta per la serata, ha sapientemente utilizzato una voce narrante per spiegare al pubblico alcuni complessi passaggi della trama, senza comprometterne l’equilibrata resa compositiva “pucciniana”. La rappresentazione ha visto l’arrangiamento musicale del M° Gianfranco Iuzzolino, e la regia internazionale di Vincenzo Grisostomi Travaglini coadiuvato dal consulente alla drammaturgia, Ravivaddhana Monipong Sisowathche che ha portato a Polignano a Mare anche i costumi originali realizzati appositamente per la rappresentazione al “Teatro del Giglio” di Lucca nel 1982, ai quali si devono aggiungere le realizzazioni dei costumisti Fabrizio Onali e Otello Camponeschi, esposte sotto il porticato di palazzo San Giuseppe a Polignano. Splendide le scenografie realizzate da Damiano Pastoressa, interessante scenografo pugliese che già lo scorso aveva deliziato i turesi, con il sontuoso allestimento della “Cavalleria Rusticana”, scenografia che quest’anno ha visto luci e disegni, curati da Giovanni Pirandello, pronipote del drammaturgo Luigi, Premio Nobel per la letteratura. Gli attori e le comparse Maria L’Abbate, Miriam Galiano, Porziana Lentini, Francesco Colucci, Nico Rotondi e Piero Greco sono state preparate alla scena dalla truccatrice Tiziana Passero.
Le note della “tragedia pucciniana” sono state tradotte in musica dalla sempre più rinomata e ricercata “Orchestra Filarmonica Pugliese”, stupendamente diretta dal Direttore e M° ConcertatoreFerdinando Redavid nostro concittadino coadiuvato dal M° Collaboratore Andrea Barbato. Ferdinando Redavid, “Direttore artistico” che da anni ha intrapreso una battaglia per far della nostra comunità turese un centro della lirica conosciuto a livello internazionale, con la rassegna del “Festival del Belcanto” portando sul palcoscenico turese, affermati interpreti e giovani promesse poi affermatesi della lirica. Si pensi ad esempio al tenore Enrico Terrone Guerra, lo scorso anno protagonista col personaggio di “Turiddu” nella suggestiva “Cavalleria Rusticana” andata in scena nella nostra cittadina, quest’anno invece, qui con la sua potente voce, interprete superbo del “Ten. Pinkerton”, insieme alla protagonista “Cio Cio-san” interpretata dal soprano Maria Luisa Lattante, al baritono Donato Di Gioia nel ruolo del console “Sharpless”, ed alla giornalista e attriceMichela Italia, collaboratrice del tenore Marcello Giordani, nel ruolo di “Kate Pinkerton”, oltre che autrice dei splendidi e coinvolgenti testi, narrati al pubblico. Per ultimo, la partecipazione dell’affermato mezzosoprano turese Angela Alessandra Notarnicola, già lo scorso anno a Turi nel ruolo di “Mamma Lucia” nella “Cavalleria Rusticana”, e quest’anno impegnata nell’importantissima parte di “Suzuki”, eroina positiva della tragedia, che con abnegazione cercherà di difendere la sua padrona non riuscendovi. Difatti nella tragedia ambientata a fine ‘800 nella città portuale giapponese di Nagasaki, Suzuki è l’inserviente disillusa della quindicenne geisha Cio Cio-san innamoratasi perdutamente del Ten. Pinkerton, il quale a sua volta la seduce e sposa per puro spirito d’avventura, divertito dal contesto e dagli usi del paese nipponico.
Partito alla volta degli USA, l’ufficiale abbandona la sposa, promettendole il suo ritorno a primavera. Ma dopo tre anni dalla sua partenza, l’inserviente Suzuki stanca dello struggersi in lacrime della propria padrona, prega Buddha che Cio-cio-san divenuta col matrimonio Madama Butterfly“non pianga più, mai più, mai più”. Volendo destare la sua padrona dall’ormai effimero sogno, le ricorda il pragmatico e conosciutissimo comportamento marinaro: “Mai non s’è udito | di straniero marito | che sia tornato al suo nido”. La padrona invece, forte di un amore ardente e tenace, pur affliggendosi nella lunga attesa, dalla bella casa sulla collina affacciata sul porto, continua a professar la sua incrollabile fiducia nel ritorno dell’amato nella straziante aria “Un bel dì, vedremo”, la più celebre dell’opera, vero e proprio atto di fede in cui la Madama proietta il suo smanioso desiderio di riabbracciare il suo sposo, magnificamente reso in lirica dal soprano Maria Luisa Lattante.
Quando un dì, Madama Butterfly avvista da lontano la nave “Abramo Lincoln” su cui è imbarcato il suo amato, si vede ormai già vittoriosamente a lui ricongiunta e lo attende insonne in una lunghissima veglia d’attesa. Mentre ella stanca si addormenta, Suzuki apprende che Pinkerton si è risposato con un americana e dell’intenzione che “del bimbo conviene | assicurar le sorti!”, apprestandosi a stare il più possibile vicino alla propria padrona. Qui il mezzosoprano Angela Alessandra Notarnicola riesce a connotare perfettamente la “pietas” con cui Puccini connota l’animo dell’inserviente posta in una condizione d’indigenza, sul gradino più basso della società nipponica, con “Ma bisogna ch’io le sia sola accanto | Nella grande ora, sola! Piangerà tanto tanto!”. Ma la sposa, una volta venuta a sapere delle intenzioni dell’ufficiale, decide di scomparire, in silenzio, dalla scena del mondo, senza clamore e dopo aver affidato il figlio alle cure di Pinkerton e Kate.Suzuki accortasi delle sue tragiche intenzioni cerca in ogni modo di evitarle. Così nell’ultima scena mentre Madama Butterfly ha già portato alla gola il “coltello tantō” ricordando le parole del padre suicida “Con onor muore chi non può serbar vita con onore”, Suzuki in un ultimo disperato tentativo di far rinsavire la sua padrona, col braccio invita il bambino “Dolore” portato in scena dal piccolo Diego Malena, ad andare verso la madre affinché alla sua vista fermi la propria mano. Tentativo che ha breve durata, fin quando la madre, bendato e riposto il bambino in una stuoia dietro un paravento, esegue su di sé l’antico rito suicida del “jigai”.
Lo spettacolo di livello internazionale, andato in scena presso la tensostruttura, è qualcosa che difficilmente sarebbe possibile vedere ovunque, viste le maestranze operanti, ma che è stato possibile seguire gratuitamente per i circa 800 fruitori che hanno accolto l’invito dei genitori Davide Gaetano D’Accolti, riusciti con l’aiuto degli amici, del Comune di Polignano a Mare e di Pugliapromozione – Agenzia Regionale del Turismo, ad esaudire il sogno solidale del figlio verso coloro che non solamente per ragioni economiche non possono cercare una simile esperienza in un teatro, dando ad essi la possibilità in determinate giornate clou dell’anno, quali ad esempio Ferragosto, di poter godere per qualche ora della intensa sensazione di bellezza che promana dal mondo della musica e della lirica, patrimonio inestimabile a beneficio di tutti.
Pietro Pasciolla
Didascalie foto, dall’alto: 1) Angela Alessandra Notarnicola ‘Suzuki’ (da sinistra), Donato Di Gioia ‘Sharpless’, Maria Luisa Lattante ‘Cho-Cho-San’ e il piccolo Diego Malena ‘Dolore’ (Foto di Giuseppe Grieco- Radio Incontro); 2) il M. Ferdinando Redavid dirige l’Orchestra Filarmonica Pugliese; 3) Enrico Terrone Guerra ‘Pinkerton’ e Maria Luisa Lattante ‘Cho-Cho-San’ (Foto di Giuseppe Grieco- Radio Incontro).
Anche quest’anno, la nostra cittadina è tornata a rivivere le emozioni che per certi versi solo la lirica sa infondere. Da oltre un decennio, ciò avviene grazie alla caparbietà e alla capacità del direttore d’orchestra turese Ferdinando Redavid, che con la sua Associazione ‘Chi è di scena!?’ ha ideato e portato avanti la kermesse del “Festival del Belcanto” elevando la cittadina di Turi, con il suo patrimonio storico ed artistico, a punto di riferimento internazionale della lirica.
La XII° edizione del Festival del Belcanto si è inaugurata nella serata di lunedì 1 Agosto nello slargo dinanzi Palazzo Gonnelli, alla presenza del nostro sindaco Tina Resta. La serata introduttiva strutturata in due momenti così come da prassi, ha visto una prima parte in cui il cultore di storia locale Tino Sorino, ha presentato due suoi saggi sull’indimenticato “Maestro Nino Rota”, uno dal titolo “In Seicento o a spasso con Nino Rota” l’altro dal titolo “Nell’intimità di Nino Rota”, editi entrambi da “NeP” nel 2020 e nel 2022. Dall’incontro moderato dal giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Sebastiano Coletta, è emerso un Rota legato convintamente alle sonorità verdiane tanto da orchestrare un “Valzer in fa maggiore” per pianoforte composto da Verdi in onore della contessa Clara Maffei, utilizzandolo come colonna sonora del film “Il Gattopardo” di Luchino Visconti e per l’occasione eseguito al piano dal Coletta insieme ad altri brani.
Nella seconda parte della serata, vi è stata l’assegnazione annuale del prestigioso “Premio Belcanto”, da sempre affidato alle eccellenze liriche del territorio che contribuiscono a diffondere il nome della Puglia nel mondo, quest’anno consegnato al baritono barese di fama internazionale Marcello Rosiello, la cui straordinaria carriera, costruita con grande talento, professionalità e dedizione, lo hanno portato a calcare i più importanti palcoscenici d’Italia e non solo. Assente per l’occasione a causa di un impegno lavorativo in Portogallo, non ha mancato di consegnare un messaggio augurale alla kermesse, così come fatto anche dalla pronipote di Verdi, Gaia Maschi Barezzi Verdi. In chiusura della prima serata, v’è stato l’omaggio musicale al compositore di Busseto celebrato in quest’edizione, da parte dei soprani Valentina De Pasquale e Angela Lomurno, ottimamente accompagnati al pianoforte da Rossella Perrone, cimentatesi in alcune arie da camera poco eseguite del Verdi e due arie tratte dal suo “Simon Boccanegra” e dalla “Traviata”, che hanno emozionato il pubblico per la bellezza e la magistrale interpretazione.
Se la scorsa edizione del 2021, era improntata all’insegna della rinascita della lirica in presenza dopo il doloroso arresto dell’intero settore a causa della pandemia, quest’anno l’obiettivo proclamato della rassegna è stato quello di far intendere la lirica un’arte non più ritenuta ad esclusivo appannaggio degli addetti ai lavori, e di un pubblico colto, ma un arte inclusiva in grado di coinvolgere tutti, anche i meno avvezzi. Compito per il quale si è puntato sulla partecipazione di una figura di rilievo qual è il barese, Giandomenico Vaccari, regista, direttore e sovrintendente di alcuni tra i più celebri teatri e realtà musicali d’Italia, il quale da accorto prosatore, ha portato in scena, un’inedita riduzione del dramma mediante la scomposizione dell’opera stessa, ed il suo racconto semplice ed accattivante intervallato dal suono delle arie e dei brani sinfonici più importanti, rendendola quindi in grado di esprimere nell’immediato il proprio messaggio.
Per la serata del 3 Agosto, l’Opera scelta non poteva non essere che, una delle più intense della produzione verdiana, la quale insieme al “Trovatore” ed alla “Traviata” compone la “Triade verdiana” dal carattere popolare, con cui il genio di Roncole di Busseto (Parma) raggiunse la piena maturità artistica e la fama internazionale. “Rigoletto” l’opera prescelta, è tratta dal dramma “Le roi s’amuse” ossia “Il Re si diverte” di Victor Hugo, rappresentato per la prima volta nel 1832 alla Commèdie-Française, e censurato in Francia per oltre cinquanta anni perché considerato un opera critica contro il regno di Luigi Filippo d’Orleans e della sua corte. La sua trasposizione teatrale avvenuta per mano del librettista Francesco Maria Piave, e la sua orchestrazione da parte di Giuseppe Verdi, ebbe dopo l’intervento della censura austriaca e il cambio di ambientazione e nomi, la prima messa in scena al Teatro “La Fenice” di Venezia nel 1851, procurando immediata fama al “sinfonismo” verdiano, in grado nell’800, di smuovere le masse popolari e borghesi, protagoniste nel processo Risorgimentale Italiano.
La location scelta per la rappresentazione non poteva che essere Piazza Colapietro, sia per l’acustica pressoché perfetta per tali manifestazioni musicali, sia per il suggestivo colpo d’occhio del Palazzo Marchesale turese a far da sfondo all’antica corte nobiliare.
Il Preludio detta quello che sarà il filo conduttore dell’Opera: “La maledizione”. Tema che si ripeterà costantemente nel dramma con la nota DO in ritmo doppio puntato. Tutto si svolge alla corte del Duca di Mantova. Durante una festa a Palazzo Ducale, il Duca parlando con il cortigiano Borsa, gli confida il suo particolare interessamento per una fanciulla incontrata in chiesa, mentre nel contempo corteggia la contessa di Ceprano, esprimendo giudizi arditi e libertini, nella ballata “Questa o quella per me pari sono”. Durante la ballata il buffone di corte, schernisce il di lei marito iracondo, mentre il resto dei cortigiani trama la loro rivalsa verso il giullare, organizzando il rapimento di quella che il Cav. Marullo ritien esserne l’amante.
Improvvisamente irrompe nell’orgiastica festa il Conte di Monterone, vecchio nemico del Duca, che lo accusa pubblicamente di avergli disonorato la figlia oltraggiando il suo onore. Rigoletto, avocando a se il dovere di irriderlo ne provoca la veemente reazione verbale sfociata nel lancio verso entrambi di una “Maledizione”. Immediatamente vien circondato e imprigionato dagli armigeri, il suo destino è segnato: Andrà al patibolo. Ma prima di uscire di scena rincara la dose verso il giullare con, “e tu, serpente, tu che d’un padre ridi al dolore, sii maledetto!”
Parole che si conficcano immediatamente nella coscienza del buffone, ricordatosi d’essere anch’egli un padre. Profondamente colpito, il giullare mentre incede lentamente verso casa viene avvicinato da Sparafucile, che si presenta come un sicario prezzolato di cui potersi fidare. La condizione dei due personaggi li rende assimilabili, e di questo il Rigoletto ne è consapevole quando intona il monologo: “Pari siamo!…io ho la lingua, egli ha il pugnale”. Monologo dal quale ha inizio la profonda meditazione sulla sua infelice vita causata anche dal suo “essere difforme”, e sul suo dissidio interiore, cercando di distogliere la mente dal pensiero ricorrente della maledizione.
Intanto la figlia Gilda attende il padre che l’abbraccia teneramente. Ma di lui e della sua vita a corte non sa praticamente nulla, essendo sempre rinchiusa nelle pareti domestiche, se non per andare a messa la Domenica, con la domestica Giovanna. Il padre, ossessionato dalla paura che la fanciulla possa essere insidiata, chiede alla governante di vegliarla “Veglia, o donna, questo fiore”.
Andato via il vecchio per rientrare a corte, la governante fa furtivamente entrare il Duca, il quale si lancia alla conquista della giovine, con “È il sol dell’anima”, ed altre meravigliose melodie liriche, con le quali Verdi ne connota il personaggio fatuo, magistralmente interpretato dal tenore Francesco Castoro, facendogli esprimere a scopi ingannevoli quel sentimento che in realtà egli non prova mai per nessuna della sue conquiste. Sul più bello, lo spasimante è costretto a desistere dalla sua opera di seduzione data la presenza di qualcuno nei pressi della casa, rumori che lo inducono a scappare. Per Gilda, rimasta sola in casa, il “Maestro” cesella come un merletto l’aria “Gualtier Maldé… Caro nome”, tratteggiandone ancora in questa fase un enfatica tenera vulnerabilità, nell’ingenuo approccio amoroso, delicatamente interpretata con trilli brevi, leggeri, sopratutto chiari, dalla soprano Ripalta Bufo.
Intanto, mossi a vendetta i cortigiani hanno premeditato il rapimento della presunta amante, del giullare e già si aggirano nei paraggi della sua casa. Essi riescono a coinvolgere lo stesso buffone tornato a casa colto da un presentimento, ed al quale fanno credere con un inganno di voler rapire la contessa di Ceprano, facendogli indossare una maschera. Accortosi di essere stato bendato capisce l’inganno, ed il rapimento di Gilda. Ed intonando “Ah, la maledizione”, perde conoscenza.
Rientrato a palazzo, il Duca, che era tornato a cercare la ragazza poco dopo il loro incontro, par effettivamente struggersi per il rapimento della giovane “Ella mi fu rapita”, ma è un attimo, infatti informato dai cortigiani che la giovine è stata nascosta nei suoi appartamenti, intona la cabaletta, “Possente amor mi chiama”, inno al più bruciante dei desideri che immediatamente corre a placare, con tutte le sue conseguenze. Giunge Rigoletto, che fingendo indifferenza, cerca la figlia, deriso dal crocchio di cortigiani. Il baritono Carlo Provenzano, mostra ed espone al pubblico l’intero sfaccettato animo del suo personaggio in grado di passare dal sospetto iniziale mediante la cantilena iniziale “lala, lala”, all’ira pronunciando una delle invettive più importanti della storia della musica “Cortigiani, vil razza dannata”, proseguendo con la commozione “ebben io piango”, per giungere alla prostrazione dinanzi i cortigiani, che vedono così raggiunto finalmente il loro scopo vendicativo.
Lasciato solo nel salone, viene raggiunto da sua figlia. Troppe cose fra i due non son state dette, ed ora necessariamente dev’esservi un confronto. Gilda con “Tutte le feste al tempio” racconta come ha conosciuto il giovane di cui ignorava la vera identità, e di aver perduto l’onore, mentre il padre cerca di consolarla con “Piangi, fanciulla”. In questo esatto momento, la fin’ora sprovveduta ragazza subisce una rapida metamorfosi, conscia di essere diventata “donna” nella stanza da letto del Duca, acquisisce consapevole maturità e si appresta a divenire l’eroina del dramma. Intanto nel mentre il conte di Monterone viene condotto al patibolo, osserva il Duca ritratto in un quadro, e constata amaramente che la sua maledizione è risultata esser vana. Allorché, udite le parole del Conte, l’ingigantito impeto, porta Rigoletto a replicare “No vecchio t’inganni…sì, vendetta tremenda vendetta”. Non si torna indietro, il Duca secondo il gobbo morrà per mano del sicario.
Intanto Rigoletto ha concesso alla figlia un periodo di tempo per dimenticare il Duca. Ma ella lo ama ancora. Deciso a far toccare definitivamente con mano alla figlia chi sia veramente l’uomo, la conduce alla locanda di Sparafucile sulle rive del fiume Mincio, dove si trova il Duca in incognito, adescato dalla sorella del sicario Maddalena. Gilda da uno spiraglio ha così modo di vedere di nascosto l’amato, sempre uguale, smanioso e sol capace di affermare e ribadire fino alla fine il suo credo libertino cantando la celebre romanza: “La donna è mobile”, per poi corteggiare con un “Un dì, se ben rammentomi”, la mezzo soprano Maria Candirri, a proprio agio nei panni drammatici della zingara Maddalena.
Intanto Rigoletto ha concesso alla figlia un periodo di tempo per dimenticare il Duca. Ma ella lo ama ancora. Deciso a far toccare definitivamente con mano alla figlia chi sia veramente l’uomo, la conduce alla locanda di Sparafucile sulle rive del fiume Mincio, dove si trova il Duca in incognito, adescato dalla sorella del sicario Maddalena. Gilda da uno spiraglio ha così modo di vedere di nascosto l’amato, sempre uguale, smanioso e sol capace di affermare e ribadire fino alla fine il suo credo libertino cantando la celebre romanza: “La donna è mobile”, per poi corteggiare con un “Un dì, se ben rammentomi”, la mezzo soprano Maria Candirri, a proprio agio nei panni drammatici della zingara Maddalena. Segue il quartetto più famoso dell’Opera Italiana in “Bella figlia dell’amore”. Rigoletto dà ordine alla figlia travestita da uomo di tornare a casa e partire immediatamente alla volta di Verona, egli invece prende accordi con il sicario, e si allontana dalla locanda.
Mentre si avvicina un tremendo temporale, Gilda, in preda ancora a un’attrazione irrefrenabile, torna presso la locanda e ascolta il drammatico dialogo che vi si svolge. Il padre però non ha tenuto in dovuto conto la diversità dell’animo femminile, e l’amore altruistico di cui una donna è capace, anche se indossa i panni coloriti della prostituta Maddalena, che invaghitasi anch’essa del Duca, supplica il fratello affinché lo risparmi e uccida al suo posto il gobbo non appena giungerà con il denaro. Sparafucile, vantando una sorta di “rigore professionale”, non ne vuole sapere, ma alla fine accetta un compromesso: aspetterà fino a mezzanotte e, se arriverà, ucciderà il primo uomo che entrerà nell’osteria. Gilda capendo che in quella notte non arriverà nessun altro uomo alla locanda, in un atto di estremo amore, mentre fuori infuria la tempesta, entra nella taverna non riconosciuta a causa dell’oscurità e si fa ammazzare a sangue freddo da Sparafucile. È la sublimazione dell’Amore Romantico!
A mezzanotte, come convenuto, Rigoletto ritorna alla locanda e il sicario gli consegna il corpo in un sacco. Il buffone, illudendosi con grande soddisfazione di aver portato a compimento la sua vendetta, si appresta a gettarlo nel fiume quando, in lontananza, sente riecheggiare il canto del Duca. Raggelato, apre il sacco e vi trova sua figlia Gilda, che in un ultimo anelito di vita intona una delle frasi verdiane più disperate “V’ho ingannata, colpevole… fui” toccando il cuore per quella sublimazione d’amore. La povera ed innocente Gilda offre al padre l’unica consolazione per i poveri reietti come lui, cantando “Lassù in cielo vicino alla madre”. Quel cielo di delizie immateriali non può esistere per il povero gobbo che, impotente, e messo dinanzi al suo totale fallimento. Rigoletto, disperato, si rende conto che la maledizione di Monterone ha concluso il suo cammino e grida: “Ah, la maledizione!”
L’avvincente coup de théâtre verdiano scioglie la tensione del pubblico in uno scrosciante ed emotivo applauso, accompagnato da una ovazione per gli artisti esibitisi, ed anche per la giovane l’Orchestra Filarmonica Pugliese, magistralmente diretta dal direttore Ferdinando Redavid. Ancora una volta, il risultato preventivato vien largamente superato ed a pieni voti, la riduzione dell’Opera ha mantenuto vivo il messaggio, risultato tutt’altro che scontato. Accontentare lo scrivente, con un Opera, privata delle scene di contesto, non era minimamente semplice, eppure non se ne è percepita la mancanza.
Aspettando con ansia l’edizione del prossimo anno, mi preme invitare l’Amministrazione Comunale ad andare avanti nel perseguimento dell’obiettivo di riportare la cultura nelle piazze del nostro suggestivo centro storico, perfette sia scenograficamente che acusticamente per tali eventi, e di farlo con una molteplicità di eventi culturali (non ludici) che devono affrancare una buona volta il Cuore del Nostro Paese, affrancamento che dev’essere percepito dai turesi in modo che possano tornare a goderne e riviverne il fascino senza tempo, magari spendendosi essi stessi per un rilancio della Comunità.
Pietro Pasciolla
Didascalie foto, dall’alto: 1) l’Orchestra Filarmonica Pugliese diretta dal maestro Ferdinando Redavid; 2) 1° agosto in piazza Gonnelli, da sinistra: Tino Sorino, Tina Resta, Rossella Perrone, Valentina De Pasquale, Ferdinando Redavid, Sebastiano Coletta, Angela Lomurno; 3) il duetto “È il sol dell’anima” con ‘Gilda’ (soprano Ripalta Bufo) e ‘Duca di Mantova’ (tenore Francesco Castoro); 4) il duetto “Deh, non parlare al misero” con ‘Gilda’ (soprano Ripalta Bufo) e ‘Rigoletto’ (baritono Carlo Provenzano); 5) il duetto “Un dì, se ben rammentomi” con Francesco Castoro (tenore) e Maria Candirri (soprano).
Siamo ad agosto, mese oronziano sia per Turi sia per le altre città e paesi sotto il patronato celeste del Santo Vescovo Oronzo. Ed è un agosto finalmente ‘normale’, anche se la morsa del virus non lascia ancora in pace il mondo. Nell’anno del bimillenario della nascita del Martire, indicata dalla tradizione agiografica nel 22 d.C, con la Festa che si annuncia da capo’grande’, volgere lo sguardo alle immagini del Protettore è un modo per riprendere un cammino di fede turbato dalla paura appena appena trascorsa.
Ma quante immagini di Sant’Oronzo si venerano a Turi? A parte il mezzo busto ligneo e la statua vestita portate in processione il 25, 26 e 27 agosto; a parte le tantissime edicole votive sparse per il paese – la più importante è quella scolpita nei primi anni del Novecento dall’artista-contadino Giuseppe Palmisano sulla facciata della sua casa in via Massari – a Turi vi sono anche due pitture a olio che rimandano al Santo: 1) la pala d’altare con figura intera nella Chiesa sulla Grotta; 2) un ex-voto ad olio conservato in Municipio.
• La pala d’altare nella Chiesa sulla Grotta
La straordinaria diffusione tra XVII e XVIII secolo del culto di Sant’Oronzo nella Terra d’Otranto trovò nella genialità artistica di Giovanni Andrea Coppola – patrizio, medico, e pittore nato a Gallipoli nel 1597 – buona parte della sua fortuna, avendo proprio il Coppola ‘inventato’ il santino devozionale più famoso del Santo-Vescovo leccese. Se pure altri pittori si siano cimentati con la figura del Martire, la fortuna del suo ‘Sant’Oronzo’ della Cattedrale di Lecce è tangibile. Di quell’icona, commissionata al gallipolino dal vescovo Pappacoda (alla guida della diocesi leccese dal 1639 al 1670) esistono, infatti, innumerevoli repliche sparse in grandi e piccoli luoghi di culto del Santo, compresa la Chiesa di Turi. Si può ben dire, perciò, che quello del Coppola rappresenti l’icona ufficiale del Santo Vescovo, anzi, direi quasi la sua ‘carta d’identità’.
Studi e ricerche sul pittore gallipolino indicano quale fonte principale per la raffigurazione pittorica del Patrono le ‘Sacre Visioni’ di Domenico Aschinia, mistico calabrese che lo stesso vescovo Pappacoda ebbe modo di incontrare a Lecce. Nelle ‘Sacre Visioni’Aschinia testimonia che Sant’Oronzo si sarebbe a lui manifestato “vestito delli vescovili paramenti, che portava in mano un bacolo pastorale…, sopra del quale ci era una piccola croce… aveva in suo capo la mitra, nella quale vi era molto lampeggiante una bianca croce. Era egli pieno di luce, ed aveva tale vaghezza il di lui piviale, che non vi è cosa simile a compararseli. Da’ fianchi di costui vi erano due angeli, quasi vestiti con addobbi a color del cielo, e così fieri per una bellezza inesplicabile, avevano vaghi capelli, sopra le fila d’oro”.
L’altare maggiore della chiesa di Sant’Oronzo di Turi – edificata nella prima metà del ‘700 sulla grotta-cripta che la tradizione indica quale ultimo rifugio del Martire – è abbellita da un’icona di media dimensione ispirata proprio alla celebre tela del Coppola. Si tratta, tuttavia, di una copia ‘semplificata’ che dell’originale leccese conserva evidenti richiami alla postura dinamica del Santo in primo piano e negli angeli ai lati. Se il Coppola ha ambientato la scena in uno schema prospettico aperto, l’ignoto autore di Turi – pittore locale del XVIII secolo senz’altro, dallo stile non lontano alle opere dei Conversi (o forse si tratta proprio di loro?) – ha scelto, invece, di far ‘uscire’ la figura di Sant’Oronzo da un fondo scuro, ‘caravaggesco’, squarciandolo con una diagonale di luce che scende dall’alto. Ma l’opera ha subito troppi danni dall’incuria degli uomini e il restauro degli anni ’90 solo in parte ne ha potuto restituire l’originaria lettura.
Di questo quadro i documenti locali ci dicono poco: il ‘Notamento’ degli oggetti d’arte firmato dal sindaco Giovanni Lomastro nel primo decennio dell’800 segnala, a proposito della chiesa sulla grotta che “l’altare maggiore tiene il quadro di S. Oronzo Vescovo di Lecce”; l’inventario del Feudo di Turi stilato dal Tavolario Luca Vecchione intorno al 1740 non menziona quest’opera, ma parla di un altare posto nella sottostante grotta dedicato al “Glorioso Santo Titolare”.
Tuttavia, se il disegno di questo olio ha i limiti che prima si annotavano, la sua peculiarità è nell’essere l’unica pittura del Protettore rimasta a Turi. Di altre icone, pur menzionate nel già citato ‘Notamento’, non vi è infatti più traccia: sull’altare a destra della chiesa di Sant’Oronzo vi era “il quadro di S. Oronzo, S. Giusto, e Fortunato” (indicata come opera del Tatulli); così come nella scomparsa Cappella di S. Giuseppe intra moenia vi era “un quadro di S. Oronzo coi devoti fratelli a’ piedi. Opra recente del… Tatulli”.
• Ex-voto nel Municipio
Per vederlo è necessario chiedere il permesso al Sindaco pro-tempore di Turi in quanto questo piccolo quadretto a olio è appeso nell’ufficio del Primo cittadino. Con molta probabilità il dipinto apparteneva al ‘Santuario’ sulla Grotta ed era uno dei tanti ex-voto che adornavano le pareti della chiesa superiore, tutti scomparsi nel nulla. La tela arrotolata e privo del telaio di supporto fu casualmente recuperata a metà degli anni ’90 del secolo scorso in uno stipo a muro del Palazzo Municipale; l’allora sindaco Domenico Coppi la fece sistemare nell’attuale cornice.
L’immagine raffigura la miracolosa intercessione del Santo vescovo nei confronti di un giovane ferito ad una gamba da un proiettile sparato da un fucile, forse durante una battuta di caccia o un’imboscata. L’opera, di buona fattura, rappresenta un’intima scenetta d’interni ambientata in una stanza da letto spazialmente definita da un pavimento ‘a scacchiera’ verde-arancio; su di un grande letto a baldacchino, posto a sinistra, tra bianche lenzuola bordate di ricami, un giovane nobiluomo in camicia da notte mostra a due uomini il proiettile metallico estratto, per fortuna senza danno, dalla sua gamba; lo sguardo del ‘miracolato’ è rivolto riconoscente al Santo benedicente che gli appare in alto a destra tra luminose e rigonfie nuvole. I due distinti visitatori fissano il parente o l’amico ferito, mentre ascoltano il racconto dell’accaduto: uno di essi, signorilmente abbigliato con una giacca lunga (redingote) azzurra, cappello nero a due punte, parrucca legata da un nastro nero, è vicinissimo al letto verso il quale si sporge per osservare più da vicino il proiettile che la mano tesa del miracolato mostra agli altri personaggi della composizione. L’altro, più discreto, si limita a sollevare il braccio destro per esprimere tutto il suo stupore; è raffigurato dall’ignoto pittore a figura intera, con parrucca bianca, bastone, giacca blu lunga fino al ginocchio, pantalone nero a mezza gamba, calze bianche e scarpino fibiato.
Si tratterebbe, dunque, della raffigurazione di un prodigioso avvenimento che ha visto coinvolto un esponente della nobiltà locale il quale, riconoscente, ha devotamente commissionato ad un pittore di buona mano la visualizzazione in sintesi del tragico avvenimento accorsogli e della miracolosa intercessione di Sant’Oronzo. Gli abiti dei personaggi raffigurati nell’ex-voto farebbero pensare ad un incidente accaduto nei primi decenni o nella prima metà del XIX secolo.
Giovanni Lerede
Didascalie foto, dall’alto: 1) Ex-voto conservato nell’ufficio del Sindaco in Municipio (foto New Art); 2) busto processionale di Sant’Oronzo (foto Fabio Zita); 3) edicola votiva di Giuseppe Palmisano in via Massari (foto Giovanni Palmisano); 4) pala dell’altare maggiore della Chiesa di Sant’Oronzo sulla Grotta (foto Giovanni Palmisano).
Nell’anno scolastico 1999/2000, il Prof. Osvaldo Buonaccino d’Addiego presentò un progetto di Storia Contemporanea dal titolo “IL VIAGGIO DELLA MEMORIA…. attorno all’uomo” rivolto agli alunni del triennio dell’ITES PERTINI di Turi. Il progetto, realizzato con la condivisione del dirigente scolastico prof. Deleonardis e di tutti i colleghi e personale scolastico, ha perseguito questo obiettivo: aiutare i giovani a capire, a conoscere, non solo utilizzando il libro di testo (che per la verità li allontana per il suo freddo anche se necessario nozionismo), ma utilizzando mezzi e strategie didattiche più consone al loro modo di apprendere.
Al termine del progetto, fatto da 10 lezioni basate sulla visione dei documentari storici e letture dei documenti, il Prof Buonaccino ebbe la brillante idea di tentare il coinvolgimento diretto di testimoni sopravvissuti alla Shoah, che con il loro racconto avrebbero aiutato gli alunni a capire che quanto appreso in classe non era frutto di fantasia o di ricostruzioni ad arte, ma si trattava di verità per la quale c’erano testimoni diretti, che portavano sulla loro pelle e nel profondo dell’anima i segni di un calvario atroce e indicibile. Nell’arco degli anni 2000-2016 i ragazzi dell’ITES PERTINI, ma anche molti ospiti che venivano a scuola attirati dalla unicità di questo evento, hanno ascoltato 16 testimoni e la loro storia toccante, drammatica, intensa, emozionante.
Il Prof. Buonaccino ha raccolto queste testimonianze nel saggio “La staffetta della Memoria” con l’obiettivo di lasciare traccia delle testimonianze ascoltate, perché, “quando la vita avrà concluso il suo percorso, i nostri amici non cessino di gridare tutto il loro dolore per le atrocità sofferte ma anche di esternare la loro fiducia per i giovani; e noi saremo i loro testimoni per sempre”.
Il Presidente del Centro. Studi “Aldo Moro”, Mimmo Leogrande
Il saggio del prof. Buonaccino d’Addiego sarà presentato a cura del Centro Studi ‘Aldo Moro’ domenica 22 maggio alle ore 19 presso la Chiesa Madre di Turi
Un esempio dei ‘crudi’ Crocifissi del Seicento meridionale è il maestoso Calvario della chiesa francescana di San Giovanni Battista a Turi: un gruppo ligneo policromo sistemato nella seconda cappella sul lato destro della navata comprendente: Crocifisso, Addolorata, San Giovanni Evangelista, Maddalena, Padre Eterno, Spirito Santo e due Angeli reggicalice.
Al centro è l’imponente figura del Cristo in croce ad attirare subito l’attenzione per quelle numerose sottolineature ‘veriste’ su un corpo orrendamente piagato, ferito, cereo, fortemente caricato dal punto di vista emotivo; l’artista scultore volutamente ha insistito sulle piaghe, i lividi, i fiotti abbondanti di sangue da ogni ferita aperta, quasi fossimo di fronte ad una scena horror. Il volto è sofferente, reclinato dal peso di una corona di rovi spinosi più volte girati intorno alla testa. Tutto è realizzato per stimolare la pietas popolare e la contemplazione partecipata, secondo le linee devozionali imposte dalla Controriforma.
Il Calvario turese può, con probabile certezza, essere attribuito al calabrese fra Angelo da Pietrafitta, nativo del cosentino, esponente di spicco di quella folta schiera di frati-intagliatori, i quali, spostandosi da un convento all’altro, hanno saputo riempire le chiese dell’Ordine Francescano del Sud Italia di arredi in legno e soprattutto di Crocifissi dolorosi, realizzati ‘alla spagnola’ sul modello imposto dal caposcuola degli scultori francescani, il siciliano fra Umile Pintorno da Petralia Soprana, il cui seguace più prossimo è stato proprio fra Angelo. Firma e datazione non accompagnano il gruppo scultoreo turese, ma i segni stilistici saltano subito agli occhi in quanto i Crocifissi attribuiti a fra Angelo nella Puglia centro-meridionale (una trentina circa) possono considerarsi delle vere e proprie ‘fotocopie’.
“Nella scultura – scrive p. Benigno Francesco Perrone nella sua storia dei ‘Conventi della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia’ (vol. 3°, pag. 52) − si riscontrano tutti i connotati, che caratterizzano gli esemplari del maestro calabrese: il volto affusolato, la tornitura delle gambe, la discriminazione dei capelli, la conformazione del torace e il particolare disegno del perizoma”. Il Perrone assegna a fra Angelo anche l’Addolorata e San Giovanni, datando il tutto “attorno al 1697”; tuttavia esclude che la Maddalena, figura assente negli altri Calvari, sia opera del Pietrafitta; è probabile, quindi, l’aggiunta di questo personaggio forse dopo il 1742, visto che nell’Apprezzo del Feudo di Turi il ‘tavolario’ Luca Vecchione, descrivendo la cappella del Crocifisso dei Riformati, scrive: “…dipinto nelle mura, e lamia a fresco li misteri della Passione di Nostro Signore con l’altare in legno, e sotto di essa il Santo Sepolcro con vetriata davanti, il gradino di legname simile con nicchia in cui sta’ collocato il Crocifisso al naturale di rilievo, ed alla destra, e sinistra Nostra Signora Addolorata e S. Giovanni anche di rilievo al naturale…”. La Maddalena, come si può notare, non è menzionata, così come gli Angeli e il Padre Eterno. Il Vecchione, però, ci fornisce una preziosa informazione sull’aspetto originario della cappella: le mura erano dipinte a fresco con “…li misteri della Passione di Nostro Signore”.
La leggenda del Crocifissoche non volle lasciare il Convento
• Narra la leggenda che fra Angelo da Pietrafitta scolpì due Crocifissi: uno per il Convento di Rutigliano e l’altro per un paese della sua Calabria. Durante il trasporto verso le terre calabresi di uno dei due Crocifissi avvenne qualcosa di straordinario proprio qui a Turi. Un forte temporale costrinse il convoglio a riparare presso il convento di San Giovanni. Quando smise di piovere si decise di riprendere il viaggio, ma ogni qualvolta si tentava di far uscire dalla chiesa il Crocifisso di fra Angelo veniva giù un forte acquazzone. Dopo vari inutili tentativi fu chiaro che il Crocifisso non ne volesse sapere di lasciare Turi. Si decise così di chiedere al Vescovo il consenso a far rimanere a San Giovanni la grande Croce sofferente. Da allora il Crocifisso dei Francescani è invocato dagli agricoltori turesi durante i periodi di forte siccità, affinché si ripeta il miracolo della pioggia. L’ultima volta è accaduto nel 1990. Dopo un lungo periodo asciutto, il 29 marzo venne deciso di portare in processione − non avveniva da 50 anni − il Crocifisso del frate-scultore. Come è tradizione l’effige del “miracolo” fece il giro del paese, portato a spalla dai sacerdoti.
Giovanni Lerede
Didascalie foto dall’alto: 1) particolare del volto martoriato del Cristo Crocifisso scolpito da fra Angelo da Pietrafitta (foto Giovanni Palmisano); 2) veduta d’insieme del gruppo scultoreo del Calvario nella chiesa San Giovanni Battista di Turi (foto Giovanni Palmisano); 3) processione per le strade di Turi del 1990 per invocare il miracolo della pioggia.