“Tra le personalità artistiche cui la Puglia ha dato i natali – scrive nel 1994 Giovanni Boraccesi – vi è quella del pittore Samuele Tatulli (1754 – doc. 1826) le cui vicende, sebbene ancora oscure vanno comunque sempre più delineandosi per i continui contributi offerti dalla critica…”. Fu proprio Boraccesi in due studi pubblicati sul periodico di identità editoriale ‘Fogli di periferia’ ad indicare, grazie anche ad un preciso riferimento archivistico riguardante il Notamento del Sindaco Lomastro del 1811, l’inedita attribuzione di due tele della chiesa di Santa Chiara al nostro pittore, peraltro originario di Palo del Colle (e non di Conversano come annotano alcune fonti e, a volte, anche lo stesso Tatulli) e i cui dipinti sono stati finora rinvenuti in Puglia e Basilicata (Ferrandina, Rutigliano, Oria, Palo, Conversano, Noci, Noicattaro, San Vito dei Normanni, Mottola, Turi, Bari) coprendo un arco di tempo che va dal 1781 (Ferrandina, Madonna del Rosario) al 1826 (Bari, San Marco).
A Turi Samuele Tatulli non realizza solo i due quadri per la chiesa delle Clarisse, raffiguranti rispettivamente la Natività con Sam Marco e la Crocifissione, ma anche altre tre opere registrate nel sopramenzionato Notamento del 1811, a quel tempo compilato dal sindaco di Turi Lomastro e a noi purtroppo non pervenute. Infatti, nella cappella intra moenia di S. Giuseppe, poi scomparsa, erano custoditi «un quadro di S. Oronzo coi divoti fratelli a’ piedi. Opera recente del suddetto Tatulli». In quella extra moenia di S. Oronzo, «il quadro di S. Oronzo, S. Giusto e Fortunato» nonché quello «di S. Elena con la Croce. Questi due ultimi sono pitture del predetto Tatulli.»”.
Tornando alla chiesa delle Clarisse di Turi c’è da dire che i due dipinti, posti in posizione speculare ai lati dell’unica navata rappresentano, non casualmente, l’inizio e la fine del percorso terreno del Cristo: tenera e festosa la visione della nascita di Gesù Bambino tra pastorelli e angeli e un singolare San Marco evangelista. Di contro, drammatica e dolente la raffigurazione del Golgota, con il Nazareno agonizzante in uno scenario di desolato dolore.
La Crocifissione, che Boraccesi attribuisce “per affinità stilistiche e tipologiche” al Tatulli della dirimpettaia Natività, anch’essa non firmata ma ascritta da Lomastro al pennello del prolifico pittore di Palo, vede al centro della scena del Calvario l’imponente figura di Gesù Crocifisso, appeso al legno, che taglia in due la tela, contorto dagli spasimi dell’agonia. Il Cristo con il peso del suo corpo giunto all’ultimo debole respiro ha inclinato la croce sporgendosi verso la Madre Dolorosa che occupa tutto lo spazio a sinistra. Vi è quasi un dialogo muto tra Madre e Figlio: gli sguardi sembrano cercarsi, la Vergine addolorata si abbandona toccandosi con una mano il petto lacerato. A destra della croce, nell’altro spazio, Maria Maddalena è in ginocchio in primo piano, la disperazione la fa aggrappare ai lunghi capelli chiari che la sua mano intreccia, il naso e gli occhi, arrossati dal lungo pianto disperato, colorano un volto impallidito; dietro di lei, in piedi sotto l’ombra proiettata dal Crocifisso, Giovanni il prediletto si dispera stringendo forte le sue mani. Sullo sfondo, un gruppetto di angioletti rompe la monotonia di un cielo carico di tempesta, su un accenno sfocato di paesaggio roccioso.
Tatulli sceglie qui, come nella Natività, il forte contrasto dei colori delle vesti: tra il blu del manto di Maria, il giallo e il bianco della Maddalena e il rosso-verde di Giovanni. Un gioco di cromie accese che crea quasi un movimento circolare intorno alla croce, un vortice emotivo ben sottolineato dal movimento delle mani e dei volti, dalle pieghe dei panneggi. Ma è il corpo abbandonato del Cristo, con la carne che quasi si lacera, il volto coronato di spine e sanguinante e quel ricco panneggio bianco al centro della tela, il punto più alto della drammatica rappresentazione.
Il quadro, come altre opere superstiti della chiesa delle Clarisse di Turi, porta i segni del tragico crollo del marzo 1949, quando l’intera volta dell’edificio collassò apportando ferite indelebili alle opere d’arte lì conservate, tra le quali la Crocifissione dove appaiono evidenti i distacchi di colore sulla veste della Madonna. Ferite che, il restauro promosso dall’allora Soprintendente Schettini, strenuo difensore della ricostruzione tout court che altri osteggiavano con deboli argomenti, ha potuto solo in parte mitigare, restituendo integrità a questa bella tela del Tatulli.
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Nella “Natività” la Sacra Famiglia è in luce ma in secondo piano; in avanti, invece, è la sagoma possente dell’evangelista Marco avvolta in una lunga tunica verdastra, riconoscibile dal leone ai suoi piedi, attributo iconografico specifico di questo Santo, spettatore in penombra pronto ad annotare con la piuma bianca che ha tra le dita della mano destra la “buona notizia” – la parola “Vangelo” in greco vuol significare proprio questo – del prodigio di un Dio fatto uomo, destinato a cambiare il corso della storia. Ma qui c’è un serio problema di interpretazione: il Vangelo di Marco è l’unico a non parlare per niente della nascita di Gesù tra quelli canonici del Nuovo Testamento, mentre lo fanno più specificatamente Luca e Matteo. E allora perché il pittore sceglie di rappresentare l’evangelista Marco? Che ci azzecca? Sicuramente Tatulli sa che il Vangelo secondo Marco, ignorandone completamente l’infanzia, avvia il racconto della vita del Messia dal battesimo ricevuto dal Battista sulle rive del Giordano. E’ probabile, quindi, che la scelta di rappresentare Marco sia una forzatura teologica legata alle richieste della committenza, forse particolarmente legata alla devozione verso questo Santo.
Il Tatulli pone il Bambino al centro della raffigurazione, con la Vergine che lo sorregge amorevolmente mentre lo indica con lo sguardo ad un pastorello adorante; Giuseppe, invece, conversa con altri due personaggi venuti a rendere omaggio al Figlio di Dio. Il gioco dei volti, l’intreccio degli sguardi, lo svolazzare degli angeli in alto, il pallio rosso fiammante del barbuto Evangelista, e la scelta di porre la Santa Famiglia su un piano elevato, danno a questa composizione – che in generale si inquadra in un consolidato cliché iconografico e devozionale – un certo dinamismo circolare, quasi fosse un vortice che trova la sua energia vitale nel Bambinello sceso in terra per redimere i peccati dell’umanità.
Giovanni Lerede
- Le foto sono di Giovanni Palmisano
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