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Natività (con San Marco) e Crocifissione: due tele di Samuele Tatulli nella Chiesa delle Clarisse di Turi

“Tra le personalità artistiche cui la Puglia ha dato i natali – scrive nel 1994 Giovanni Boraccesi – vi è quella del pittore Samuele Tatulli (1754 – doc. 1826) le cui vicende, sebbene ancora oscure vanno comunque sempre più delineandosi per i continui contributi offerti dalla critica…”. Fu proprio Boraccesi in due studi pubblicati sul periodico di identità editoriale ‘Fogli di periferia’ ad indicare, grazie anche ad un preciso riferimento archivistico riguardante il Notamento del Sindaco Lomastro del 1811, l’inedita attribuzione di due tele della chiesa di Santa Chiara al nostro pittore, peraltro originario di Palo del Colle (e non di Conversano come annotano alcune fonti e, a volte, anche lo stesso Tatulli) e i cui dipinti sono stati finora rinvenuti in Puglia e Basilicata (Ferrandina, Rutigliano, Oria, Palo, Conversano, Noci, Noicattaro, San Vito dei Normanni, Mottola, Turi, Bari) coprendo un arco di tempo che va dal 1781 (Ferrandina, Madonna del Rosario) al 1826 (Bari, San Marco).

A Turi Samuele Tatulli non realizza solo i due quadri per la chiesa delle Clarisse, raffiguranti rispettivamente la Natività con Sam Marco e la Crocifissione, ma anche altre tre opere registrate nel sopramenzionato Notamento del 1811, a quel tempo compilato dal sindaco di Turi Lomastro e a noi purtroppo non pervenute. Infatti, nella cappella intra moenia di S. Giuseppe, poi scomparsa, erano custoditi «un quadro di S. Oronzo coi divoti fratelli a’ piedi. Opera recente del suddetto Tatulli». In quella extra moenia di S. Oronzo, «il quadro di S. Oronzo, S. Giusto e Fortunato» nonché quello «di S. Elena con la Croce. Questi due ultimi sono pitture del predetto Tatulli.»”.

Tornando alla chiesa delle Clarisse di Turi c’è da dire che i due dipinti, posti in posizione speculare ai lati dell’unica navata rappresentano, non casualmente, l’inizio e la fine del percorso terreno del Cristo: tenera e festosa la visione della nascita di Gesù Bambino tra pastorelli e angeli e un singolare San Marco evangelista. Di contro, drammatica e dolente la raffigurazione del Golgota, con il Nazareno agonizzante in uno scenario di desolato dolore.

La Crocifissione, che Boraccesi attribuisce “per affinità stilistiche e tipologiche” al Tatulli della dirimpettaia Natività, anch’essa non firmata ma ascritta da Lomastro al pennello del prolifico pittore di Palo, vede al centro della scena del Calvario l’imponente figura di Gesù Crocifisso, appeso al legno, che taglia in due la tela, contorto dagli spasimi dell’agonia. Il Cristo con il peso del suo corpo giunto all’ultimo debole respiro ha inclinato la croce sporgendosi verso la Madre Dolorosa che occupa tutto lo spazio a sinistra. Vi è quasi un dialogo muto tra Madre e Figlio: gli sguardi sembrano cercarsi, la Vergine addolorata si abbandona toccandosi con una mano il petto lacerato. A destra della croce, nell’altro spazio, Maria Maddalena è in ginocchio in primo piano, la disperazione la fa aggrappare ai lunghi capelli chiari che la sua mano intreccia, il naso e gli occhi, arrossati dal lungo pianto disperato, colorano un volto impallidito; dietro di lei, in piedi sotto l’ombra proiettata dal Crocifisso, Giovanni il prediletto si dispera stringendo forte le sue mani. Sullo sfondo, un gruppetto di angioletti rompe la monotonia di un cielo carico di tempesta, su un accenno sfocato di paesaggio roccioso.

Tatulli sceglie qui, come nella Natività, il forte contrasto dei colori delle vesti: tra il blu del manto di Maria, il giallo e il bianco della Maddalena e il rosso-verde di Giovanni. Un gioco di cromie accese che crea quasi un movimento circolare intorno alla croce, un vortice emotivo ben sottolineato dal movimento delle mani e dei volti, dalle pieghe dei panneggi. Ma è il corpo abbandonato del Cristo, con la carne che quasi si lacera, il volto coronato di spine e sanguinante e quel ricco panneggio bianco al centro della tela, il punto più alto della drammatica rappresentazione.

Il quadro, come altre opere superstiti della chiesa delle Clarisse di Turi, porta i segni del tragico crollo del marzo 1949, quando l’intera volta dell’edificio collassò apportando ferite indelebili alle opere d’arte lì conservate, tra le quali la Crocifissione dove appaiono evidenti i distacchi di colore sulla veste della Madonna. Ferite che, il restauro promosso dall’allora Soprintendente Schettini, strenuo difensore della ricostruzione tout court che altri osteggiavano con deboli argomenti, ha potuto solo in parte mitigare, restituendo integrità a questa bella tela del Tatulli.

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Nella “Natività” la Sacra Famiglia è in luce ma in secondo piano; in avanti, invece, è la sagoma possente dell’evangelista Marco avvolta in una lunga tunica verdastra, riconoscibile dal leone ai suoi piedi, attributo iconografico specifico di questo Santo, spettatore in penombra pronto ad annotare con la piuma bianca che ha tra le dita della mano destra la “buona notizia” – la parola “Vangelo” in greco vuol significare proprio questo – del prodigio di un Dio fatto uomo, destinato a cambiare il corso della storia. Ma qui c’è un serio problema di interpretazione: il Vangelo di Marco è l’unico a non parlare per niente della nascita di Gesù tra quelli canonici del Nuovo Testamento, mentre lo fanno più specificatamente Luca e Matteo. E allora perché il pittore sceglie di rappresentare l’evangelista Marco? Che ci azzecca? Sicuramente Tatulli sa che il Vangelo secondo Marco, ignorandone completamente l’infanzia, avvia il racconto della vita del Messia dal battesimo ricevuto dal Battista sulle rive del Giordano. E’ probabile, quindi, che la scelta di rappresentare Marco sia una forzatura teologica legata alle richieste della committenza, forse particolarmente legata alla devozione verso questo Santo.

Il Tatulli pone il Bambino al centro della raffigurazione, con la Vergine che lo sorregge amorevolmente mentre lo indica con lo sguardo ad un pastorello adorante; Giuseppe, invece, conversa con altri due personaggi venuti a rendere omaggio al Figlio di Dio. Il gioco dei volti, l’intreccio degli sguardi, lo svolazzare degli angeli in alto, il pallio rosso fiammante del barbuto Evangelista, e la scelta di porre la Santa Famiglia su un piano elevato, danno a questa composizione – che in generale si inquadra in un consolidato cliché iconografico e devozionale – un certo dinamismo circolare, quasi fosse un vortice che trova la sua energia vitale nel Bambinello sceso in terra per redimere i peccati dell’umanità.

Giovanni Lerede

  • Le foto sono di Giovanni Palmisano
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Le immagini di Sant’Oronzo a Turi: due statue processionali, un’imitazione del Coppola e l’ex-voto di un miracolato

Siamo ad agosto, mese oronziano sia per Turi sia per le altre città e paesi sotto il patronato celeste del Santo Vescovo Oronzo. Ed è un agosto finalmente ‘normale’, anche se la morsa del virus non lascia ancora in pace il mondo. Nell’anno del bimillenario della nascita del Martire, indicata dalla tradizione agiografica nel 22 d.C, con la Festa che si annuncia da capo’grande’, volgere lo sguardo alle immagini del Protettore è un modo per riprendere un cammino di fede turbato dalla paura appena appena trascorsa.

Ma quante immagini di Sant’Oronzo si venerano a Turi? A parte il mezzo busto ligneo e la statua vestita portate in processione il 25, 26 e 27 agosto; a parte le tantissime edicole votive sparse per il paese – la più importante è quella scolpita nei primi anni del Novecento dall’artista-contadino Giuseppe Palmisano sulla facciata della sua casa in via Massari – a Turi vi sono anche due pitture a olio che rimandano al Santo: 1) la pala d’altare con figura intera nella Chiesa sulla Grotta; 2) un ex-voto ad olio conservato in Municipio.

• La pala d’altare nella Chiesa sulla Grotta

La straordinaria diffusione tra XVII e XVIII secolo del culto di Sant’Oronzo nella Terra d’Otranto trovò nella genialità artistica di Giovanni Andrea Coppola – patrizio, medico, e pittore nato a Gallipoli nel 1597 – buona parte della sua fortuna, avendo proprio il Coppola ‘inventato’ il santino devozionale più famoso del Santo-Vescovo leccese. Se pure altri pittori si siano cimentati con la figura del Martire, la fortuna del suo ‘Sant’Oronzo’ della Cattedrale di Lecce è tangibile. Di quell’icona, commissionata al gallipolino dal vescovo Pappacoda (alla guida della diocesi leccese dal 1639 al 1670) esistono, infatti, innumerevoli repliche sparse in grandi e piccoli luoghi di culto del Santo, compresa la Chiesa di Turi. Si può ben dire, perciò, che quello del Coppola rappresenti l’icona ufficiale del Santo Vescovo, anzi, direi quasi la sua ‘carta d’identità’.

Studi e ricerche sul pittore gallipolino indicano quale fonte principale per la raffigurazione pittorica del Patrono le ‘Sacre Visioni’ di Domenico Aschinia, mistico calabrese che lo stesso vescovo Pappacoda ebbe modo di incontrare a Lecce. Nelle ‘Sacre Visioni’Aschinia testimonia che Sant’Oronzo si sarebbe a lui manifestato “vestito delli vescovili paramenti, che portava in mano un bacolo pastorale…, sopra del quale ci era una piccola croce… aveva in suo capo la mitra, nella quale vi era molto lampeggiante una bianca croce. Era egli pieno di luce, ed aveva tale vaghezza il di lui piviale, che non vi è cosa simile a compararseli. Da’ fianchi di costui vi erano due angeli, quasi vestiti con addobbi a color del cielo, e così fieri per una bellezza inesplicabile, avevano vaghi capelli, sopra le fila d’oro”.

L’altare maggiore della chiesa di Sant’Oronzo di Turi – edificata nella prima metà del ‘700 sulla grotta-cripta che la tradizione indica quale ultimo rifugio del Martire – è abbellita da un’icona di media dimensione ispirata proprio alla celebre tela del Coppola. Si tratta, tuttavia, di una copia ‘semplificata’ che dell’originale leccese conserva evidenti richiami alla postura dinamica del Santo in primo piano e negli angeli ai lati. Se il Coppola ha ambientato la scena in uno schema prospettico aperto, l’ignoto autore di Turi – pittore locale del XVIII secolo senz’altro, dallo stile non lontano alle opere dei Conversi (o forse si tratta proprio di loro?) – ha scelto, invece, di far ‘uscire’ la figura di Sant’Oronzo da un fondo scuro, ‘caravaggesco’, squarciandolo con una diagonale di luce che scende dall’alto. Ma l’opera ha subito troppi danni dall’incuria degli uomini e il restauro degli anni ’90 solo in parte ne ha potuto restituire l’originaria lettura.

Di questo quadro i documenti locali ci dicono poco: il ‘Notamento’ degli oggetti d’arte firmato dal sindaco Giovanni Lomastro nel primo decennio dell’800 segnala, a proposito della chiesa sulla grotta che “l’altare maggiore tiene il quadro di S. Oronzo Vescovo di Lecce”; l’inventario del Feudo di Turi stilato dal Tavolario Luca Vecchione intorno al 1740 non menziona quest’opera, ma parla di un altare posto nella sottostante grotta dedicato al “Glorioso Santo Titolare”.

Tuttavia, se il disegno di questo olio ha i limiti che prima si annotavano, la sua peculiarità è nell’essere l’unica pittura del Protettore rimasta a Turi. Di altre icone, pur menzionate nel già citato ‘Notamento’, non vi è infatti più traccia: sull’altare a destra della chiesa di Sant’Oronzo vi era “il quadro di S. Oronzo, S. Giusto, e Fortunato” (indicata come opera del Tatulli); così come nella scomparsa Cappella di S. Giuseppe intra moenia vi era “un quadro di S. Oronzo coi devoti fratelli a’ piedi. Opra recente del… Tatulli”.

• Ex-voto nel Municipio

Per vederlo è necessario chiedere il permesso al Sindaco pro-tempore di Turi in quanto questo piccolo quadretto a olio è appeso nell’ufficio del Primo cittadino. Con molta probabilità il dipinto apparteneva al ‘Santuario’ sulla Grotta ed era uno dei tanti ex-voto che adornavano le pareti della chiesa superiore, tutti scomparsi nel nulla. La tela arrotolata e privo del telaio di supporto fu casualmente recuperata a metà degli anni ’90 del secolo scorso in uno stipo a muro del Palazzo Municipale; l’allora sindaco Domenico Coppi la fece sistemare nell’attuale cornice.

L’immagine raffigura la miracolosa intercessione del Santo vescovo nei confronti di un giovane ferito ad una gamba da un proiettile sparato da un fucile, forse durante una battuta di caccia o un’imboscata. L’opera, di buona fattura, rappresenta un’intima scenetta d’interni ambientata in una stanza da letto spazialmente definita da un pavimento ‘a scacchiera’ verde-arancio; su di un grande letto a baldacchino, posto a sinistra, tra bianche lenzuola bordate di ricami, un giovane nobiluomo in camicia da notte mostra a due uomini il proiettile metallico estratto, per fortuna senza danno, dalla sua gamba; lo sguardo del ‘miracolato’ è rivolto riconoscente al Santo benedicente che gli appare in alto a destra tra luminose e rigonfie nuvole. I due distinti visitatori fissano il parente o l’amico ferito, mentre ascoltano il racconto dell’accaduto: uno di essi, signorilmente abbigliato con una giacca lunga (redingote) azzurra, cappello nero a due punte, parrucca legata da un nastro nero, è vicinissimo al letto verso il quale si sporge per osservare più da vicino il proiettile che la mano tesa del miracolato mostra agli altri personaggi della composizione. L’altro, più discreto, si limita a sollevare il braccio destro per esprimere tutto il suo stupore; è raffigurato dall’ignoto pittore a figura intera, con parrucca bianca, bastone, giacca blu lunga fino al ginocchio, pantalone nero a mezza gamba, calze bianche e scarpino fibiato.

Si tratterebbe, dunque, della raffigurazione di un prodigioso avvenimento che ha visto coinvolto un esponente della nobiltà locale il quale, riconoscente, ha devotamente commissionato ad un pittore di buona mano la visualizzazione in sintesi del tragico avvenimento accorsogli e della miracolosa intercessione di Sant’Oronzo. Gli abiti dei personaggi raffigurati nell’ex-voto farebbero pensare ad un incidente accaduto nei primi decenni o nella prima metà del XIX secolo.

Giovanni Lerede

Didascalie foto, dall’alto: 1) Ex-voto conservato nell’ufficio del Sindaco in Municipio (foto New Art); 2) busto processionale di Sant’Oronzo (foto Fabio Zita); 3) edicola votiva di Giuseppe Palmisano in via Massari (foto Giovanni Palmisano); 4) pala dell’altare maggiore della Chiesa di Sant’Oronzo sulla Grotta (foto Giovanni Palmisano).

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Ritorna la festa dell’Annunziata e del ‘passa passe’. Un quarto giro dedicato ai bimbi della martoriata Ucraina

Una luminosa mattinata di sole, appena velata da qualche cirro e con un leggero vento profumato di primavera, ha salutato il ritorno del rito di benedizione caro ai turesi: il ‘passa passe’ del 25 di aprile. A causa del Covid-19, infatti, la festa dei bambini adornati di nastri colorati è mancata per due anni, nel sacrosanto rispetto delle norme emanate dal Governo per proteggere la popolazione dall’aggressione pandemica.

In antico i turesi si recavano alle isolate chiesette rurali dell’Annunziata di Rutigliano e Gioia per ‘passare’ i loro piccoli affidandoli alla protezione della Vergine Maria rappresentata nel momento del concepimento, ma dal 1903, terminato il restauro della chiesetta di San Rocco, il rito d’origine campestre si è cominciato a svolgere anche a Turi intorno all’antichissimo edificio di origine bizantina, allora ancora ai margini dell’abitato, così da non costringere più i fedeli a recarsi altrove. Nel 1950 la festa, per decisione del rettore don Donato Totire, venne spostata dal 25 marzo al 25 aprile, già giorno di festa nazionale per la Liberazione. Nel 1965 arrivò a Turi dalla Val Gardena, su commissione del Rettore, l’attuale effige dell’Annunciazione in forma di tronco, opera dello scultore di Ortisei Luigi Santifaller (sulla bella scultura dell’Annunziata e sulla presenza degli artisti altoatesini a Turi troverete un approfondimento sul n. 302 de ‘il paese’, in uscita nei prossimi giorni).

Don Giovanni Amodio, felice per il ritrovato appuntamento di preghiera primaverile e per la buona affluenza di partecipanti, ha officiato il rito in tutte le sue fasi (accompagnato da don Giuseppe Dimaggio) con il pensiero spesso rivolto all’agghiacciante guerra in Ucraina – barbarie disumana e sacrilega come lui stesso l’ha definita durante l’omelia  – in special modo ha rivolto una particolare parola di vicinanza ai bambini vittime innocenti, spaventati dalle bombe e dalle sirene, alle loro madri costrette a fuggire per difendere i loro figli e ai loro papà morti combattendo per la patria. La dedica alla martoriata Nazione dell’est aggredita dai russi è stata concretizzata dall’aggiunta ai tradizionali tre giri di processione dietro l’effige lignea dell’Annuncio di un quarto giro tutto dedicato ai bimbi d’Ucraina, che ha avuto inizio dopo il lancio di palloncini gialli e azzurri.

La benedizione finale dei bimbi, dei loro genitori e padrini/madrine è stata l’occasione per l’Arciprete don Amodio di ricordare tre illustri sacerdoti, definite grandi figure del Novecento turese e suoi punti di riferimento: don Donato Totire, don Vito Ingellis e don Giovanni Cipriani. Tutti i e tre questi grandi uomini di Chiesa hanno contribuito, ognuno a suo modo, alla divulgazione del culto dell’Annunziata nella comunità turese. L’applauso finale partito dalla folla verso la Vergine è stato dedicato un po’ anche a loro.

Giovanni Lerede

Didascalie foto: 1) La processione dell’Annunziata di quest’anno al primo giro (foto G. Lerede); 2) bambini ucraini profughi su un treno per Varsavia; 3) La messa prima della processione davanti alla Chiesetta di San Rocco (foto G. Lerede)

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Certi Calvari del XVII secolo trasudano sangue. Fra Angelo da Pietrafitta nella Chiesa dei Riformati di Turi

Un esempio dei ‘crudi’ Crocifissi del Seicento meridionale è il maestoso Calvario della chiesa francescana di San Giovanni Battista a Turi: un gruppo ligneo policromo sistemato nella seconda cappella sul lato destro della navata comprendente: Crocifisso, Addolorata, San Giovanni Evangelista, Maddalena, Padre Eterno, Spirito Santo e due Angeli reggicalice.

Al centro è l’imponente figura del Cristo in croce ad attirare subito l’attenzione per quelle numerose sottolineature ‘veriste’ su un corpo orrendamente piagato, ferito, cereo, fortemente caricato dal punto di vista emotivo; l’artista scultore volutamente ha insistito sulle piaghe, i lividi, i fiotti abbondanti di sangue da ogni ferita aperta, quasi fossimo di fronte ad una scena horror. Il volto è sofferente, reclinato dal peso di una corona di rovi spinosi più volte girati intorno alla testa. Tutto è realizzato per stimolare la pietas popolare e la contemplazione partecipata, secondo le linee devozionali imposte dalla Controriforma.

Il Calvario turese può, con probabile certezza, essere attribuito al calabrese fra Angelo da Pietrafitta, nativo del cosentino, esponente di spicco di quella folta schiera di frati-intagliatori, i quali, spostandosi da un convento all’altro, hanno saputo riempire le chiese dell’Ordine Francescano del Sud Italia di arredi in legno e soprattutto di Crocifissi dolorosi, realizzati ‘alla spagnola’ sul modello imposto dal caposcuola degli scultori francescani, il siciliano fra Umile Pintorno da Petralia Soprana, il cui seguace più prossimo è stato proprio fra Angelo. Firma e datazione non accompagnano il gruppo scultoreo turese, ma i segni stilistici saltano subito agli occhi in quanto i Crocifissi attribuiti a fra Angelo nella Puglia centro-meridionale (una trentina circa) possono considerarsi delle vere e proprie ‘fotocopie’.

Nella scultura – scrive p. Benigno Francesco Perrone nella sua storia  dei ‘Conventi della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia’ (vol. 3°, pag. 52)  − si riscontrano tutti i connotati, che caratterizzano gli esemplari del maestro calabrese: il volto affusolato, la tornitura delle gambe, la discriminazione dei capelli, la conformazione del torace e il particolare disegno del perizoma”. Il Perrone assegna a fra Angelo anche l’Addolorata e San Giovanni, datando il tutto “attorno al 1697”; tuttavia esclude che la Maddalena, figura assente negli altri Calvari, sia opera del Pietrafitta; è probabile, quindi, l’aggiunta di questo personaggio forse dopo il 1742, visto che nell’Apprezzo del Feudo di Turi il ‘tavolario’ Luca Vecchione, descrivendo la cappella del Crocifisso dei Riformati, scrive: “…dipinto nelle mura, e lamia a fresco li misteri della Passione di Nostro Signore con l’altare in legno, e sotto di essa il Santo Sepolcro con vetriata davanti, il gradino di legname simile con nicchia in cui sta’ collocato il Crocifisso al naturale di rilievo, ed alla destra, e sinistra Nostra Signora Addolorata e S. Giovanni anche di rilievo al naturale…”. La Maddalena, come si può notare, non è menzionata, così come gli Angeli e il Padre Eterno. Il Vecchione, però, ci fornisce una preziosa informazione sull’aspetto originario della cappella: le mura erano dipinte a fresco con “…li misteri della Passione di Nostro Signore”.

La leggenda del Crocifisso che non volle lasciare il Convento

Narra la leggenda che fra Angelo da Pietrafitta scolpì due Crocifissi: uno per il Convento di Rutigliano e l’altro per un paese della sua Calabria. Durante il trasporto verso le terre calabresi di uno dei due Crocifissi avvenne qualcosa di straordinario proprio qui a Turi. Un forte temporale costrinse il convoglio a riparare presso il convento di San Giovanni. Quando smise di piovere si decise di riprendere il viaggio, ma ogni qualvolta si tentava di far uscire dalla chiesa il Crocifisso di fra Angelo veniva giù un forte acquazzone. Dopo vari inutili tentativi fu chiaro che il Crocifisso non ne volesse sapere di lasciare Turi. Si decise così di chiedere al Vescovo il consenso a far rimanere a San Giovanni la grande Croce sofferente. Da allora il Crocifisso dei Francescani è invocato dagli agricoltori turesi durante i periodi di forte siccità, affinché si ripeta il miracolo della pioggia. L’ultima volta è accaduto nel 1990. Dopo un lungo periodo asciutto, il 29 marzo venne deciso di portare in processione − non avveniva da 50 anni − il Crocifisso del frate-scultore. Come è tradizione l’effige del “miracolo” fece il giro del paese, portato a spalla dai sacerdoti.

Giovanni Lerede

Didascalie foto dall’alto: 1) particolare del volto martoriato del Cristo Crocifisso scolpito da fra Angelo da Pietrafitta (foto Giovanni Palmisano); 2) veduta d’insieme del gruppo scultoreo del Calvario nella chiesa San Giovanni Battista di Turi (foto Giovanni Palmisano); 3) processione per le strade di Turi del 1990 per invocare il miracolo della pioggia.

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Erasmus 2021-2024, al ‘Pertini-Anelli’ di Turi un meeting con i docenti giunti da Polonia, Spagna e Germania

Appena arrivata alla dirigenza del Pertini-Anelli nell’anno scolastico 2019-2020 – afferma la prof.ssa Giuseppina Caldararo, dirigente scolastica dell’Istituto Pertini-Anelli di Turi – abbiamo subito richiesto l’attivazione dell’Erasmus plus KA, intitolato ‘Migration in der EU – Bereocherung und/oder Bedrohung’ (Migrazione in Europa: arricchimento o/e minaccia?). Mi sono resa conto che la nostra scuola ha una grande necessità di avere contatti e scambi con i Paesi Europei e noi crediamo fermamente che le attività interculturali siano un arricchimento di conoscenze delle lingue, delle culture, delle tradizioni e dei modi di fare di altri docenti e di altri studenti. Partecipare all’Erasmus è anche un modo diverso di gestire l’ambiente scolastico”.

E l’Erasmus 2021-2024, esperienza pedagogica a livello internazionale, dopo il forzato stop dettato dalla pandemia ha ripreso il suo cammino formativo grazie alla proroga ottenuta a recupero dell’anno 2020 quasi tutto trascorso in lockdown. Nella mattinata di oggi 9 novembre, infatti, i docenti Jadwiga Tomczyk e Dominik Michalczewski giunti dalla Polonia, María Teresa Fernández Rodriguez e Deva Saro Gómez dalla Spagna, Maria Dolores Vidal Garcia e Ursula Olschewski (coordinatrice del progetto) dalla Germania sono stati accolti qui a Turi dalla dirigente scolastica prof.ssa Caldararo e dalle docenti referenti del progetto dell’Istituto superiore ‘Pertini-Anelli’ Chiara Longo, Claudia De Tomaso e Ornella Antonia Vasco. Si è quindi subito passati in laboratorio per l’avvio, davanti ai computer, del meeting di organizzazione delle attività dell’Erasmus, che continueranno domani per concludersi giovedì 11, con un primo coinvolgimento diretto degli studenti.

Questo meeting – mi dice la prof.ssa Chiara Longo prima dell’avvio del primo incontro – pone le basi per poter organizzare la mobilità degli studenti che avverrà dalla primavera in poi. Quindi, oggi domani e dopodomani ci saranno questi incontri tra docenti per programmare e preparare il campo alle attività degli studenti”. La tre giorni turese è “un’occasione per stabilire una cooperazione sostenibile con le scuole partner” ed ha l’obiettivo principale, alla fine dei  36 mesi programmati, di preparare i contenuti della piattaforma informatica sulla quale gli studenti e i docenti porteranno avanti le attività di preparazione alla fase clou dell’Erasmus, quella più formativa, cioè il viaggio di studenti e docenti verso i tre Paesi europei partecipanti. Inoltre, i docenti ospiti conosceranno la scuola di Turi e il territorio dal quale provengono gli studenti, con visite pomeridiane nei paesi vicini: Locorotondo, Alberobello, Conversano, Polignano e Monopoli.

In queste tre giornate – dichiara la Dirigente Caldararoi nostri ospiti tedeschi, spagnoli e polacchi avranno la possibilità di avere una formazione sulla nostra gestione scolastica, la stessa che avranno i nostri docenti quando andranno nelle loro scuole. L’ultimo giorno, cioè giovedì 11, nell’auditorium, avverrà l’incontro con gli studenti delle classi quarte e quinte, ragazzi che dallo scorso anno sono impegnati nella formazione Erasmus. Poi, nella prossima primavera, Covid permettendo, i nostri studenti andranno in mobilità presso le scuole di Germania, Spagna e Polonia che con noi aderiscono al progetto. Sarà una ulteriore occasione di scambio culturale, di conoscenza del sistema scolastico europeo del quale sappiamo ancora poco”. La prof.ssa Caldararo si augura vivamente che il Covid “non tarpi nuovamente le ali alla nostra scuola” perché la mobilità degli studenti verso l’Europa è fondamentale per la loro formazione. “Mi piacerebbe – dice – che a fine percorso i nostri docenti tornassero qui a scuola con idee nuove per rivoluzionare il nostro modo di fare scuola; agli studenti auguro che le attività dell’Erasmus siano esperienze altamente costruttive e che portino positività nel nostro paese per trasformarlo alla luce di quanto hanno potuto vedere all’estero. Andare fuori significa poi portare qui quello che si è imparato, per spronare gli altri a fare sempre nuove esperienze. Mi piacerebbe che loro portino a scuola il bello, il nuovo che hanno visto per trasformare in meglio la nostra stessa scuola”.

Le foto dall’alto: 1) il logo del progetto; 2) la dirigente scolastica prof.ssa Giuseppina Caldararo – foto Fabio Zita; 3) una fase del meeting del 9 novembre – foto Giovanni Lerede; 4) foto di gruppo dei docenti di Italia, Spagna, Polonia e Germania partecipanti – foto Giovanni Lerede.

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Concorso letterario della Casa Editrice “Montag”, il romanzo inedito di Raffaele Valentini secondo classificato

L’ultima fatica letteraria del prof. Raffaele Valentini, direttore del nostro magazine, ha ricevuto un importante riconoscimento. Nella seconda edizione del Concorso Internazionale di Narrativa 2021 indetto dalla Casa Editrice “Montag” (Marche) il nuovo romanzo, ancora inedito, “I fiori sono righe rosse e bianche” è risultato tra le cinque opere finaliste.Nata nel settembre del 2007, la casa editrice marchigiana ha l’obiettivo di incentivare l’arte della scrittura e dare visibilità ai talenti emergenti. Oltre 200 le opere inedite in gara per questa seconda edizione: un numero ragguardevole, che se da un lato ha costretto la Redazione ad affrontare un’importante mole di lavoro, dall’altro ha rappresentato la migliore ricompensa per chi ha ancora voglia di scommettere su autori e autrici, in un mondo editoriale come quello italiano, complesso e difficile da scalare.

L’esito finale dell’edizione 2021 ha visto quale opera prima classificata: “Mizzy, ovvero Il Vecchio Costillo e la miniera”, di Gianpietro Scalia, mentre al secondo posto è risultato il nostro Raffaele Valentini con “I fiori sono righe rosse e bianche”. A seguire: “Sorridi” di Irene Barbagallo, “Il diario di Leroy Dabrowsky” di Mirko Genovese“L’attesa” di Umberto Chiri.

All’amico Direttore i complimenti della Redazione de ‘il paese magazine’ per questo ennesimo traguardo, nella speranza di vedere al più presto in libreria il nuovo romanzo, terzo in ordine di tempo dopo “La prigione sotto la neve” (Manni Editore) e “Ci sarà tempo per chiedermi” (Edizioni ‘Il Papavero’).

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San Filippo, San Felice e Santa Candida. Patrimonio di arte e fede che rischia di sparire

Due statue e un reliquiario della Chiesa delle Clarisse di Turi

A Turi sono molte le opere d’arte da restaurare. Tre di queste sono da salvare urgentemente per strapparle non solo alla distruzione definitiva ma anche all’immeritato oblio nel quale sono cadute da decenni, eliminate dal culto, ignorate e abbandonate al loro destino. Eppure si tratta di statue lignee che risalgono quasi certamente alla seconda metà del XVIII secolo, quando la chiesa delle Clarisse subì una profonda trasformazione. Le statue sono ciò che resta del ricco apparato sacro della Chiesa di Santa Chiara andato in parte disperso dopo la soppressione dell’annesso convento, complesso religioso edificato nel cuore del paese grazie – come scrive Giovanni Boraccesi – alla “generosa beneficenza dei fratelli Vittorio (canonico) ed Elia de Vittore che, ultimato nel 1631, fu destinato ad educandato femminile”.

Le tre sculture di legno dipinto rappresentano, a figura intera su base sagomata, San Filippo Neri e San Felice da Cantalice, mentre a mezzobusto è il reliquiario di Santa Candida. I due Santi, come si può leggere nel ‘Notamento’ firmato dal Sindaco Lomastro e datato 1811, erano sistemati su rispettivi altari: “Nell’altare di S. Felice a Cantalicio vi è la statua di pietra del detto Santo (le due statue, in realtà, sono di legno, ndr). In quello di S. Filippo Neri vi è la simile statua”. La dedica di specifici altari dimostrerebbe che non solo le signore monache ma tutti i turesi avevano a cuore anche il culto verso questi due Santi, che in vita si conoscevano ed erano amici essendo nati entrambi intorno al 1515 (wikipedia.it); la devozione, mano a mano scomparve o si affievolì notevolmente, presumibilmente dopo quel dicembre 1891 quando – come riferisce Don Pasquale Pirulli – “le soppresse Monache chiariste di Turi abbandonarono volontariamente il fabbricato del loro Monastero…”, probabilmente a causa delle continue pressione da parte delle Autorità comunali che reclamavano a gran voce il possesso sia della chiesa sia del convento.

I due altari catalogati nel 1811 sono scomparsi, distrutti con ogni probabilità dal crollo della volta avvenuto nel marzo 1949 o forse già abbattuti in precedenza; da allora le sopraddette sculture dovettero passare in deposito, prima visibili nel coro superiore, attualmente occluse alla vista di tutti in una camera-deposito adiacente la sacrestia. Il Tavolario Vecchione, nel suo ‘Apprezzo’ del 1746 non cita né gli altari né le statue di questi Santi, segno che a quel tempo gli uni e le altre ancora non c’erano in Santa Chiara (il frate cappuccino San Felice da Cantalice fu canonizzato solo nel 1712). Si può ipotizzare che i due Santi possano essere stati ‘sponsorizzati’ dalle badesse in carica in quegli anni, oppure sostenuti da qualche abbiente del paese, nel contesto dell’edificazione del nuovo monumentale altare – un recente studio di Christian De Letteriis ne assegna la realizzazione a Giuseppe e Gennaro Sanmartino (vedi l’articolo di Pietro Pasciolla pubblicato su ‘il paese’ 294/giugno 2021) ­– con la grande tela del pittore campano Carlo Amalfi (1770) e della trasformazione di tutta la chiesa conventuale, grazie alle “cospicue rendite che le Clarisse ricavavano dal proprio patrimonio… il più consistente del paese” come riferisce sempre lo studio di Boraccesi.

Le effigie di San Filippo e San Felice appaiono come sculture realizzate da un unico artista di buona esperienza: il Santo cappuccino ha la figura dinamica nella posa delle gambe e nell’abbraccio del Bambin Gesù. San Filippo, sguardo rivolto al Cielo, ha il lungo camice sacerdotale arricchito di pieghe, la casula (o pianeta) e il manipolo appoggiato a un braccio, impreziosite da dorature e decorazioni floreali. Quest’ultima scultura si mostra come la più danneggiata (una delle mani è priva delle dita), ma entrambe sono state attaccate dal tarlo e presentano distacchi di colore. Un restauro, quindi, è urgente se le si vuole salvare per restituirle, come è doveroso, al patrimonio storico-artistico della nostra città.

La malasorte ha colpito anche la terza scultura, sicuramente più antica, appartenuta alle Clarisse: il mezzobusto-reliquiario di Santa Candida martire e vergine. L’immagine, come le altre, è scolpita in legno, ha la veste dorata e tra le mani ha la palma e il libro. Il mezzobusto poggia su una base con un vano finestrato dove è riposto un osso cranico. È molto deteriorata a causa del cattivo stato di conservazione e del tarlo. Vecchione nel suo ‘Apprezzo’, a proposito del “Monastero di donne Monache sotto il titolo di S. Chiara”, scrive: “A man sinistra sonovi tre Cappelle anco dentro muro, la prima sotto il titolo di S. Marco Jus Patronato del Reverendo Capitolo, la seconda di S. Domenico Jus Patronato della Camera Baronale, la terza di S. Candida, tutte e tre con l’Altare di fabbrica, e gradini di legno…”. Vi era un altare dunque dedicato a questa Santadei primi secoli del cristianesimo; Boraccesi data il busto-reliquiario al Seicento, il sindaco Lomastro, però, stranamente non lo cita nel suo inventario d’inizio Ottocento.

Fonti bibliografiche

  • Giovanni Boraccesi, “La Chiesa di S. Chiara a Turi”, in ‘fogli di periferia’ anno VI, n. 1/giugno 1994, ed. Vito Radio;
  • Don Pasquale Pirulli, “La fondazione e il patrimonio del Monastero di Santa Chiara in Turi”, in ‘sulletracce’, quaderni del Centro Studi di Storia e Cultura di Turi n. 5-6-7/2002-2004, Schena editore.
  • Pietro Pasciolla, “I fratelli Sanmartino a Santa Chiara”, in ‘il paese’ 294/giugno 2021
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Festa patronale con la ‘benedizione’ della pioggia. Sant’Oronzo trova riparo in Municipio

La terra arsa ha bisogno di acqua e la pioggia in questo giorno di festa è sicuramente una benedizione del Cielo anche se ha creato qualche disagio a tutti noi. Il Vescovo di Conversano-Monopoli, mons. Giuseppe Favale, ha ringraziato l’intercessore Sant’Oronzo per l’arrivo dell’agognata pioggia assente in modo così abbondante da mesi. Infatti, quasi sul finire di un agosto rovente, proprio nel pomeriggio del 26 agosto, quando tutto era pronto per la celebrazione, alle ore 19, del Solenne Pontificale, il cielo si è fatto plumbeo con lampi, tuoni e rovesci, ed inevitabilmente il programma stabilito è andato in tilt. Già nella serata precedente la Messa nel piazzale Sant’Oronzo, davanti al Cimitero, era stata ‘disturbata’ da una breve pioggia, ma poi, pur con un po’ di ritardo, la funzione si è potuta concludere. Caricati da questa ‘indulgenza’ del Cielo, il Comitato Festa Patronale (anche quest’anno presieduto da Livio Lerede), il Comune e l’Autorità ecclesiastica nel giorno clou hanno voluto comunque allestire come si deve la piazza e lo ‘stradone’ per celebrare degnamente, alla presenza di una cospicua folla di fedeli, di alcune Tv e testate giornalistiche la giornata di festa ‘grande’ in onore del Protettore, che per il secondo anno consecutivo si è fatta piccina a causa della perdurante emergenza sanitaria. Qualche goccia residua dopo l’acquazzone di un’ora prima non ha scoraggiato chi aveva la responsabilità dell’organizzazione, ma l’Arciprete Don Giovanni Amodio, accompagnando la statua di Sant’Oronzo nel breve tratto tra la Matrice e la piazza a fatica nascondeva la preoccupazione per le nubi gonfie di pioggia ed anche una certa stanchezza per la difficoltà del momento (lo ha confessato ‘cuore in mano’ lo stesso Don Giovanni al termine della Messa del giorno seguente).

Il Pontificale è cominciato dopo una brevissima processione degli officianti dalla chiesa degli Scolopi all’altare, allestito all’ombra – si fa per dire, il sole non si è proprio visto – del Carro Trionfale. In testa l’Arciprete con la Reliquia, poi S.E. il Vescovo, i Parroci e i Diaconi turesi e poi quelli di Surbo e Campi Salentina, pellegrini quest’ultimi insieme a gruppi di parrocchiani sulla ‘via oronziana’ dal Salento a Turi per rendere omaggio al nostro e al loro Santo. Don Giovanni ha subito preso la parola per salutare gli illustri ospiti forestieri presenti e tutte le Autorità sedute nelle prime file. Esaltando la figura esemplare del Vescovo Martire, Don Giovanni ha poi evidenziato come nella giornata del 26 di quest’anno si fossero concentrati tre importanti eventi: 1) il 50° anniversario del Carro realizzato nel 1971, evento testimoniato con le parole dell’allora sindaco Matteo Pugliese; 2) la collocazione del reliquiario di Sant’Oronzo nell’apposita teca; 3) la contestuale apertura della Porta Santa nella Cattedrale di Lecce per il Giubileo Oronziano, indetto, come a Turi nel 2018 dal Santo Padre, in questo caso nell’occasione del bimillenario della nascita del primo Vescovo di Lecce, indicata dalle fonti agiografiche nel 22 dopo Cristo.

Dopo qualche minuto però, i Canti e le Letture della Santa Messa sono stati interrotti bruscamente dalla pioggia che ha ricominciato a cadere a tratti copiosa a tratti no; ma questa incertezza è bastata a scatenare il fuggifuggi generale in tutte le direzioni di fuga possibili: gli ecclesiastici si sono diretti verso la Chiesa Madre, le autorità civili verso il Municipio, i fedeli hanno trovato riparo sotto ombrelli e balconate. Nel frattempo i portatori hanno velocemente trasportato l’effige del Santo Protettore – forse per la prima volta nella storia della festa – nell’androne del Municipio, dove la statua è stata fatta entrare con non poche difficoltà, essendo l’ingresso troppo basso per permettere un agevole passaggio. Superati i primi momenti di confusione e smarrimento, nella Chiesa Madre è stato allestito l’altare con l’essenziale per permettere al Vescovo e ai Sacerdoti di riprendere il rito da dove era stato bruscamente interrotto, cioè dalle Letture. E così è stato, anche se strideva l’assenza sotto il baldacchino rosso proprio della statua del Santo Vescovo, quasi fosse ‘una festa senza il festeggiato’. Una situazione nuova, ma non voluta in quanto maturata in pochi secondi dall’esigenza di preservare il prezioso abito che riveste l’effige. 

Terminata la Messa con la canonica benedizione, il reliquiario d’argento, progettato da Daniela Angelillo e realizzato a Putignano da Vito Capozza, a custodia di alcuni preziosi frammenti ossei ricevuti in dono dalla Curia Arcivescovile di Zara (Croazia) nel 2019, è stato collocato dal Vescovo nella nuova e definitiva teca posta nella cappella della Matrice dedicata a Sant’Oronzo, presente il sindaco Tina Resta ed un emozionatissimo Don Giovanni. La sacra Reliquia – “orgoglio della città di Turi”, come ha sottolineato l’Arciprete al termine della Messa serale del 27 agosto – d’ora in poi sarà perennemente sotto gli occhi di tutti i devoti del Martire grazie alla speciale custodia trasparente progettata dall’arch. Angela Rossi e inserita in una rinnovata cappella dopo i lavori di restauro eseguiti dall’Impresa ‘Rossi Restauri’.

Intorno alle 22, sotto una pioggerellina appena percettibile, il Busto del Santo, accompagnato dal suono della Banda cittadina e dagli applausi dei turesi è stato fatto salire in cima al Carro.

Il 27, dopo la funzione, il Busto è stato fatto scendere accompagnato nuovamente dalla Banda di Turi, dagli applausi e dai fuochi pirotecnici.

Nonostante il perdurare dell’emergenza Covid-19, nonostante i limiti imposti dalle norme anticontagio in tanti, anche quest’anno, si sono prodigati per realizzare, nonostante tutto, la Festa ‘grande’. A tutti questi protagonisti, visibili e invisibili, Don Giovanni Amodio ha voluto portare il suo personale e accorato ringraziamento, richiamando la benevola attenzione dei turesi su chi non parla, non giudica, non si mostra, ma volentieri si rimbocca le maniche per realizzare.

Didascalie foto, dall’alto:

1) Mons. Favale depone il Reliquario nella nuova teca; 2) Don Giovanni Amodio e il Vescovo raggiungono l’altare in piazza per il Solenne Pontificale; 3) Il Solenne Pontificale prima dell’interruzione causa pioggia; 4) La statua di Sant’Oronzo al riparo nell’androne del Municipio; 5) Breve processione in Chiesa Madre verso la Cappella di Sant’Oronzo (foto di Fabio Zita)

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“L’Immacolata” nella chiesa di San Giovanni Battista a Turi, tela di fra Antonio da Conversano

Una tela del frate-pittore del Seicento bisognosa di cure

La «Immacolata Concezione – scrive Mariella Donvitonon è il concepimento di Cristo nel seno della Vergine, ma il concepimento della Vergine stessa nel seno di S. Anna o piuttosto nella mente di Dio che, per una grazia unica, la esenta dal peccato originale. Ella fu dunque scelta prima della nascita, concepita prima di Eva e di tutta l’eternità; ecco perché è rappresentata sempre giovane, mentre discende dal cielo sulla terra, per riscattare la colpa di Eva.» Per tutto il ‘600 furono maggiormente i Francescani e i Gesuiti ad ampliare il culto dell’Immacolata in tutti i paesi cattolici, accompagnandolo con una nuova iconografia ispirata soprattutto al ‘Cantico dei Cantici’ e all’Apocalisse di San Giovanni, “la donna vestita di sole, in piedi su un corno di luna, coronata di stelle, mentre tende le braccia o congiunge la mani sul petto”.

A Turi, la più antica rappresentazione dell’Immacolata, non a caso, è in un edificio francescano: la Chiesa dei Padri Riformati dedicata a San Giovanni Battista. La tela ad olio (piuttosto malridotta), di produzione francescana come vedremo più avanti, è collocata nella seconda cappella a destra della navata; la Vergine è rappresentata sullo sfondo di un cielo azzurro, secondo lo schema iconografico derivato dall’Apocalisse: in piedi su un’argentea mezzaluna, mani giunte, con una morbida veste d’acceso rosa e un mantello azzurro-blu con ricche bordure d’oro e pietre preziose. Forte è qui il richiamo alla figura tardomanierista dell’Immacolata (1588) di Alessandro Fracanzano, ora nel Museo Diocesano di Monopoli. La sovrasta, in asse, lo Spirito Santo e, al vertice, il Padre Eterno con le braccia accoglienti; ai lati, su delle nuvole (dalle quali sporgono in basso la luna e il sole, astri-simbolo della Madonna), un concertino simmetrico di angeli musicanti.

Ai lati la complessa simbologia tratta dal ‘Cantico dei Cantici’ e da altre fonti, che rende visibili le virtù di Maria Immacolata. A sinistra: la Palma (QUASI PALMA), la Scala (SCALA COELI), il Cedro del Libano (QUASI CEDRUS), la Pianta di rose (QUASI PLANTAGIO ROSE), il Tempio di Dio (TEMPLUM DEI), la Città di Dio (CIVITAS DEI), mentre la Torre di David, il Giardino chiuso, lo Specchio senza macchia, sono simboli privi di didascalie, a causa sia di un probabile taglio operato in passato, sia per le lacune nel colore più accentuate proprio nella parte bassa del quadro. A destra della Vergine, invece, troviamo: il Cipresso (QUASI CIPRESSUS), la Porta chiusa (PORTA CLAUSA), la Fontana dei giardini (FONS SIGNATUS), il Pozzo d’acqua viva (PUTEUS AQUARUM ), il giglio e altri. C’è poi, sul bordo a destra, il drago a rappresentare la vittoria sul male (e per alcuni, sui protestanti), così come la mezzaluna calpestata dalla Vergine alluderebbe alla sconfitta turca a Lepanto. «Si tratta di una simbologia molto complessa – scrive la Donvito – che attinge a varie fonti: se i simboli arborei alludono a particolari qualità della Madonna (purezza, sapienza, ecc…), gli altri hanno un preciso e talora profondo contenuto teologico, sicché si può affermare che l’iconografia dell’Immacolata è il risultato di una complessa operazione attuata dalla Chiesa, che ne fa l’immagine teologica più sofisticata dell’arte mariana

Al bordo in basso, dove più difficile è la lettura dell’opera, si trovano due importanti riferimenti all’autore e al committente. Al limite destro, vicino al drago, in una cornicetta si legge chiaramente: PRO SUE ANIME SALUTE IOANNES DOMINICUS GON(NEL)LI. Quindi, il quadro venne realizzato a spese di Giovanni Domenico Gonnelli.

Verso sinistra, proprio sul finire della tela sotto lo “Specchio senza macchia”, l’occhio esperto dell’amico restauratore e storico dell’arte Giovanni Boraccesi ha colto la presenza dei pochi resti di un cartiglio bianco assai rovinato dove, però, ancora si possono leggere le lettere iniziali di un nome: “fr. Anton…”. La lettura del prezioso “Notamento di quadri, ed altri oggetti d’arte”, compilato nel 1811, ci svela per fortuna il nome dell’autore per intero: “Nell’Altare del Rosario vi è un quadro della Vergine sotto il detto titolo, alto palmi 8, largo 4 circa. Simile pittura vi è nell’Altare della Concezione, fatta da Fra Antonio da Conversano Riformato. Su i predetti due ultimi altari vanta il Patronato il sig.r Gonnelli”. Si tratta dell’opera di uno dei tanti frati-pittori della ‘Scuola d’arte francescana’ molto attiva nel Seicento «in cui fiorirono – scrive lo storico francescano Benigno F. Perronearchitetti, pittori, scultori, intagliatori e miniatori… che nelle loro dimore fondarono botteghe attrezzate dei sussidi necessari, per tradurre in  atto un ideale artistico

Di Fra’ Antonio (nativo di Conversano) sappiamo solo di un’altra “Immacolata” molto simile a quella turese ma più affollata di personaggi, che si trova nella Chiesa di Sant’Orsola a Polizzi Generosa, in provincia di Palermo: «Sull’altare maggiore è posto il dipinto dell’Immacolata Concezione, proveniente dalla chiesa di Santa Maria del Parto, opera di fra’ Antonio da Conversano del 1600.» (Salvatore Anselmo)

Infine, un appello: l’Immacolata della Chiesa di San Giovanni ha bisogno di un urgente ed attento restauro per arrestare la caduta di colore e bloccare la lacerazione della tela. I danni sono piuttosto seri ed evidenti, perciò chi ha la responsabilità della custodia dell’opera intervenga al più presto, ma si affidi a mani più esperte perché quei danni potrebbero essere stati causati dall’intervento di restauro effettuato una ventina d’anni fa.

Le foto: 1) la tela dell’Immacolata di fra Antonio da Conversano; 2) il nome del committente; 3) ciò che resta della firma di fra Antonio da Conversano (foto di Giovanni Palmisano)

Fonti

Mariella Donvito, “L’iconografia dell’Immacolata nella devozione confraternale”, in “Le Confraternite pugliesi in Età Moderna” a cura di Liana Bertoldi Lenoci, Scena Editore, 1988.

Benigno F. Perrone, “I Conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835)”, vol. 1 e 3. Congedo Editore, 1982.

•Salvatore Anselmo, “Polizzi Generosa, Chiesa di Sant’Orsola”, www.polizzigenerosa.it

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Il Crocifisso dei Francescani di Turi, possibile nuova datazione al Cinquecento

Era nella Parrocchia di S. Giovanni Battista – già chiesa conventuale dei Francescani ‘Riformati’ di Turi – il Crocifisso ligneo che dal 2007 è parte integrante degli arredi sacri della Chiesa di Sant’Oronzo sulla Grotta. Qui è pervenuto per volontà del suo restauratore, Romano De Carolis, all’epoca presidente dell’Associazione Bersaglieri ‘A. Pedrizzi’, affidataria del complesso monumentale oronziano turese. «Era malridotto e coperto da strati di smalto – dichiarò a ‘il paese’ (n. 153/maggio 2007) il prof. De Carolis al termine del restauro – e perciòho dovuto compiere una paziente ripulitura per poter far riemergere il corpo scolpito nel legno, utilizzando al minimo materiale di ripristino per le parti mancanti. Alla fine sono state eliminate le sovrastrutture che avevano appiattito il disegno dei muscoli tesi». La breve dichiarazione giornalistica di allora fornisce minimi dati sulle fasi della pulitura, purtroppo non documentata da una campagna fotografica. Né vi sono al momento dati d’archivio che ci permettono una più precisa classificazione dell’opera e della sua genesi. Un ‘vuoto’ che ci costringe a ragionare solo per ipotesi.

L’esile Cristo inchiodato alla croce, del tipo Christuspatiens, è una ‘poesia del sacro’, un oggetto d’arte modellato nel legno di chissà quale albero da frutto o di bosco, che attira immediatamente il nostro sguardo appena varcato l’ingresso della chiesa cara ai turesi, che Papa Francesco nel dicembre 2017 dichiarò ‘porta santa’. Addossato a uno dei quattro possenti pilastri che reggono la volta dell’edificio settecentesco, il Crocifisso ‘dei Francescani’ – definizione da me coniata nel 2007 per titolare la nota giornalistica sopra menzionata – appare in un alone di calda tenerezza che stempera, ma solo per un momento, la drammaticità di un corpo che ha appena terminato gli spasimi di una morte lenta e crudele. Un’icona del Cristo al Golgota ancora più significante in questo tempo di prolungata e angosciante ‘quaresima’ pandemica; e non è un caso, infatti, che è stato proprio questo Crocifisso ad essere portato in processione penitenziale per le vie deserte di Turi dall’arciprete-parroco don Giovanni Amodio, il 3 maggio dello scorso anno – erano i giorni del lockdown – scendendo fin dentro l’ipogeo-cripta a chiedere al Padre Celeste e a Sant’Oronzo la protezione dal coronavirus. Quel gesto simbolico, ricco di pathos, ha avuto il merito di far recuperare a questo Crocifisso un posto nei riti religiosi comunitari, anche perché quella processione silenziosa intendeva rievocare un ‘evento prodigioso’ del primo Settecento – la visione del Santo Martire leccese a Fra Tommaso da Carbonara – utile a rinvigorire un culto piuttosto affievolito.

Nell’arcinota ‘Descrizione, ed Apprezzo della Terra, o’ sia Feudo di Turi’, il Regio Tavolario Luca Vecchione, parlando del Convento dei Padri Riformati, non fa alcuna menzione del nostro Crocifisso, ma nomina solo il Calvario di Fra Angelo da Pietrafitta, forse perché ritenuto non degno di nota o più probabilmente per il fatto che era relegato in qualche ambiente del Convento che, è bene sottolinearlo, era di clausura dunque non accessibile al sopra menzionato tecnico venuto da Napoli. Circa sessant’anni dopo, invece, troviamo un riscontro in un altro noto documento più volte utilizzato dagli studiosi, vale a dire il ‘Notamento di quadri, ed altri oggetti d’arte’ compilato nel 1811 dal Sindaco Giovanni Lomastro, dove, a proposito di questa comunità francescana, troviamo un’annotazione interessante: “Nel coro superiore vi è un Crocefisso antico di legno”. Un breve passaggio, un indizio prezioso, che potrebbe rimandare al Crocifisso di cui ci stiamo occupando.

Nel 2007, come anticipato, nelle brevi note sul restauro portato innanzi dal De Carolis avevo ipotizzato una datazione tra XVII e XVIII secolo. A distanza di anni, però, osservando meglio i dettagli anatomici e stilistici della figura del Cristo – in particolare, la marcata descrizione della cassa toracica, il perizoma, la postura delle gambe e delle braccia – mi è balzata agli occhi e alla mente una probabile differente datazione, sicuramente più antica, maturata dall’accostamento visivo con altre croci cinquecentesche, compresa quella inserita nel gruppo della ‘Trinità’ (1520), scolpita da Stefano da Putignano nella pietra e non nel legno. A questo punto ho ritenuto utile un confronto d’idee con l’amico Giovanni Boraccesi, restauratore professionista ed esperto storico dell’arte, il quale, come speravo, ha fornito un autorevole sostegno alla mia ipotesi. Per lo studioso rutiglianese, infatti, il Crocifisso ‘dei Francescani’, per lo stile dell’intaglio, può ritenersi più un’opera del Cinquecento che del Sei-Settecento, proiettando addirittura la sua realizzazioneattorno alla metà del XVI secolo, quando cioè i Frati Francescani non erano ancora giunti nella Terra di Turi. Se così fosse, il manufatto in esame sarebbe un’opera di recupero.

Sappiamo dagli studi condotti da Benigno F. Perrone e poi ripresi da Pietro A. Logrillo, che la costruzione del convento sulla via che menava a Rutigliano ebbe inizio non prima del 1575, l’anno cioè dell’autorizzazione papale chiesta ed ottenuta da Gabriele e Giulio Molesrispettivamente fratello e figlio di Francesco”, primo ‘dominus’ di Turi della stirpe di Gerona (Catalogna). Il nostro Crocifisso, quindi, potrebbe essere stato scolpito contestualmente alla costruzione del convento, cioè nella seconda metà del XVI secolo, ma potrebbe anche, come suggerisce Boraccesi, essere nato qualche decennio prima per un’altra sede della stessa famiglia francescana e poi trasferito a Turi. È noto, infatti, che furono proprio i seguaci di Francesco d’Assisi a dare grande diffusione al culto del Crocifisso, riempiendo conventi e chiese di tale Ordine di struggenti Gesù inchiodati sulla croce, a volte realizzati da frati-artisti. Quello ‘dei Francescani’, dunque, potrebbe essere uno dei più antichi reperti dell’arte sacra, di poco successivo alle belle sculture dipinte di Stefano da Putignano, la Cappella Moles, la dedicazione della Chiesetta di San Rocco, la tela della Madonna del Rosario, opere queste di alto valore in quanto testimonianze tangibili di un Cinquecento turese intriso di fede e di cultura. (Le foto sono di Fabio Zita)