Tronère

Non a caso si chiamano “Trònere”: tuoni dalla cucina turese

Nel dialetto turese, “trònere” altro non è che il plurale di ‘truène’ (adesso italianizzato ‘tuène’); uno di quei plurali in “–re” come: attène/attànere; cavàdde/cavàddere; ciùcce/ciòccere, prìse/prèsere. Ed è per questo che la parola “trònere” è usata in maniera impropria talvolta, perché se al ristorante devi ordinare due piatti, e altri ancora, non hai alcun problema e dici: “vorrei due, tre, quattro trònere”. Ma se ne devi ordinare uno solo vai sicuramente in difficoltà perché è un vero bisticcio dire: “mi porti un trònere”. Cioè, si finisce per commettere un grosso errore grammaticale se usiamo un articolo al singolare (un) con un nome al plurale (trònere). Si dovrebbe dire: “mi porti un (nu) truène”. La lingua dei trònere deve essere assolutamente corretta perché il cosiddetto dialetto turese è una lingua completa in ogni sua componente grammaticale. Dobbiamo abituarci a dire una volta per tutte: nu truène (un tuono); e due, tre quattro ecc. trònere. Singolare e plurale vanno distinti per lemma e per numero. Che ci vuole? Così come è un obbrobrio usare il femminile (le trònere) perché il tema in argomento (i trònere) è evidentemente un sostantivo maschile!!

A Turi “trònere” va detto e scritto con una sola ‘enne’. Altrove, forse, con due ‘enne’. Questo appartiene alla differenza fonetica che esiste, come sappiamo tutti, paese per paese nella nostra Puglia, anche a distanza di pochi chilometri, come Turi e Sammichele. Non c’è un codice rigido che possa imporre una scrittura unica per ogni città, per ogni comunità. Esistono differenze fonetiche e semantiche anche tra diversi rioni dello stesso paese, in base ad attività prevalenti, in base a distanze dal centro ecc. ecc. Se poi i ‘trònere’ sono prima nati a Bari o prima nati a Turi è la solita storia di lana caprina. Davvero bravo chi riesce a stabilire il momento esatto del bigbang agli albori dei tempi. Ma a che serve? Ci basta già la ‘ferrovia’ a inorgoglirci invano, una ciliegia per la quale si dimentica volentieri che ha il DNA germanico, per niente né sammichelino né turese.


Anche sulla preparazione dei “trònere” andrei cauto. Non credo sia opportuno stabilire scrupolosi disciplinari a casaccio e proporre esempi (per quanto onorevolissimi) che non calzano proprio bene nella disputa. Il piatto è popolare, per esempio, e il formaggio svizzero indicato da qualcuno da qualche parte è una ‘acquisizione’ recente, così come il capocollo di Martina è una specialità non proprio diffusa da queste parti, e tantomeno conosciuta alla stessa maniera nel passato. E poi, il nome con cui si chiamano questi involti di carne deve avere un senso, o no? Si chiamano ‘trònere’ (tuoni) perché al loro interno racchiudevano il peperoncino nella quantità gradita. Ed erano piccanti ed ‘esplosivi’ metaforicamente come tuoni. Anche se il consumo recente li ha decisamente modificati e resi più accessibili, più mangiabili. Che poi molti propongano preparazioni proprie ci sta pure nel gioco delle interpretazioni in cucina. Non si tratta di giudicare nessuno. I ‘trònere’ rimangono comunque un’altra delle nostre specialità da valorizzare.