Era nella Parrocchia di S. Giovanni Battista – già chiesa conventuale dei Francescani ‘Riformati’ di Turi – il Crocifisso ligneo che dal 2007 è parte integrante degli arredi sacri della Chiesa di Sant’Oronzo sulla Grotta. Qui è pervenuto per volontà del suo restauratore, Romano De Carolis, all’epoca presidente dell’Associazione Bersaglieri ‘A. Pedrizzi’, affidataria del complesso monumentale oronziano turese. «Era malridotto e coperto da strati di smalto – dichiarò a ‘il paese’ (n. 153/maggio 2007) il prof. De Carolis al termine del restauro – e perciòho dovuto compiere una paziente ripulitura per poter far riemergere il corpo scolpito nel legno, utilizzando al minimo materiale di ripristino per le parti mancanti. Alla fine sono state eliminate le sovrastrutture che avevano appiattito il disegno dei muscoli tesi». La breve dichiarazione giornalistica di allora fornisce minimi dati sulle fasi della pulitura, purtroppo non documentata da una campagna fotografica. Né vi sono al momento dati d’archivio che ci permettono una più precisa classificazione dell’opera e della sua genesi. Un ‘vuoto’ che ci costringe a ragionare solo per ipotesi.
L’esile Cristo inchiodato alla croce, del tipo Christuspatiens, è una ‘poesia del sacro’, un oggetto d’arte modellato nel legno di chissà quale albero da frutto o di bosco, che attira immediatamente il nostro sguardo appena varcato l’ingresso della chiesa cara ai turesi, che Papa Francesco nel dicembre 2017 dichiarò ‘porta santa’. Addossato a uno dei quattro possenti pilastri che reggono la volta dell’edificio settecentesco, il Crocifisso ‘dei Francescani’ – definizione da me coniata nel 2007 per titolare la nota giornalistica sopra menzionata – appare in un alone di calda tenerezza che stempera, ma solo per un momento, la drammaticità di un corpo che ha appena terminato gli spasimi di una morte lenta e crudele. Un’icona del Cristo al Golgota ancora più significante in questo tempo di prolungata e angosciante ‘quaresima’ pandemica; e non è un caso, infatti, che è stato proprio questo Crocifisso ad essere portato in processione penitenziale per le vie deserte di Turi dall’arciprete-parroco don Giovanni Amodio, il 3 maggio dello scorso anno – erano i giorni del lockdown – scendendo fin dentro l’ipogeo-cripta a chiedere al Padre Celeste e a Sant’Oronzo la protezione dal coronavirus. Quel gesto simbolico, ricco di pathos, ha avuto il merito di far recuperare a questo Crocifisso un posto nei riti religiosi comunitari, anche perché quella processione silenziosa intendeva rievocare un ‘evento prodigioso’ del primo Settecento – la visione del Santo Martire leccese a Fra Tommaso da Carbonara – utile a rinvigorire un culto piuttosto affievolito.
Nell’arcinota ‘Descrizione, ed Apprezzo della Terra, o’ sia Feudo di Turi’, il Regio Tavolario Luca Vecchione, parlando del Convento dei Padri Riformati, non fa alcuna menzione del nostro Crocifisso, ma nomina solo il Calvario di Fra Angelo da Pietrafitta, forse perché ritenuto non degno di nota o più probabilmente per il fatto che era relegato in qualche ambiente del Convento che, è bene sottolinearlo, era di clausura dunque non accessibile al sopra menzionato tecnico venuto da Napoli. Circa sessant’anni dopo, invece, troviamo un riscontro in un altro noto documento più volte utilizzato dagli studiosi, vale a dire il ‘Notamento di quadri, ed altri oggetti d’arte’ compilato nel 1811 dal Sindaco Giovanni Lomastro, dove, a proposito di questa comunità francescana, troviamo un’annotazione interessante: “Nel coro superiore vi è un Crocefisso antico di legno”. Un breve passaggio, un indizio prezioso, che potrebbe rimandare al Crocifisso di cui ci stiamo occupando.
Nel 2007, come anticipato, nelle brevi note sul restauro portato innanzi dal De Carolis avevo ipotizzato una datazione tra XVII e XVIII secolo. A distanza di anni, però, osservando meglio i dettagli anatomici e stilistici della figura del Cristo – in particolare, la marcata descrizione della cassa toracica, il perizoma, la postura delle gambe e delle braccia – mi è balzata agli occhi e alla mente una probabile differente datazione, sicuramente più antica, maturata dall’accostamento visivo con altre croci cinquecentesche, compresa quella inserita nel gruppo della ‘Trinità’ (1520), scolpita da Stefano da Putignano nella pietra e non nel legno. A questo punto ho ritenuto utile un confronto d’idee con l’amico Giovanni Boraccesi, restauratore professionista ed esperto storico dell’arte, il quale, come speravo, ha fornito un autorevole sostegno alla mia ipotesi. Per lo studioso rutiglianese, infatti, il Crocifisso ‘dei Francescani’, per lo stile dell’intaglio, può ritenersi più un’opera del Cinquecento che del Sei-Settecento, proiettando addirittura la sua realizzazioneattorno alla metà del XVI secolo, quando cioè i Frati Francescani non erano ancora giunti nella Terra di Turi. Se così fosse, il manufatto in esame sarebbe un’opera di recupero.
Sappiamo dagli studi condotti da Benigno F. Perrone e poi ripresi da Pietro A. Logrillo, che la costruzione del convento sulla via che menava a Rutigliano ebbe inizio non prima del 1575, l’anno cioè dell’autorizzazione papale chiesta ed ottenuta da Gabriele e Giulio Moles “rispettivamente fratello e figlio di Francesco”, primo ‘dominus’ di Turi della stirpe di Gerona (Catalogna). Il nostro Crocifisso, quindi, potrebbe essere stato scolpito contestualmente alla costruzione del convento, cioè nella seconda metà del XVI secolo, ma potrebbe anche, come suggerisce Boraccesi, essere nato qualche decennio prima per un’altra sede della stessa famiglia francescana e poi trasferito a Turi. È noto, infatti, che furono proprio i seguaci di Francesco d’Assisi a dare grande diffusione al culto del Crocifisso, riempiendo conventi e chiese di tale Ordine di struggenti Gesù inchiodati sulla croce, a volte realizzati da frati-artisti. Quello ‘dei Francescani’, dunque, potrebbe essere uno dei più antichi reperti dell’arte sacra, di poco successivo alle belle sculture dipinte di Stefano da Putignano, la Cappella Moles, la dedicazione della Chiesetta di San Rocco, la tela della Madonna del Rosario, opere queste di alto valore in quanto testimonianze tangibili di un Cinquecento turese intriso di fede e di cultura. (Le foto sono di Fabio Zita)